[contiene qualche piccola anticipazione]
Perché vedere ancora un film di Oren Peli, dopo tutto quello che è successo? Boh, un po’ perché l’estate mi piacciono i sedicenti film horror e poi per avere la conferma che questi film sono fatti seguendo i principi del Manierismo più spinto, “alla maniera di”… Peli.
Che stavola si limita alla sceneggiatura, avendo dato la sedia del regista a Bradley Parker, ma che, andiamo… c’è sempre lui dietro, ragion per cui, il risultato è di una sciatteria imbarazzante.
Ora, Peli non solo s’è rifatto la casa con la scusa di fare il primo film, ma ha guadagnato un fantastiliardo di dollari, in tempi di recessione, con la sua trilogia. È lui da solo un’industria fiorente. Mica si può impedire a uno così di fare altri film, non trovate?
Peli, fedele alla sua idea di cinema (e storie) preconfezionato, ci regala un simpatico quadretto di viaggio di tre ragazzi ammmerigani in Europa, mockumentary (ma poi diventa un “vero” film) e, in sottofondo, questa canzone. E non ci si crede, perché i tre sono lui, lei e l’amica di lei. Neppure c’è bisogno di dirlo, ma l’amica di lei è stata convinta a viaggiare da lei, dopo essere stata appena mollata dal fidanzato. Uno stronzo.
E queste sono le simpatiche basi. Cioè, uno che guadagna un fantastiliardo di miliardi di dollari si permette il lusso di strutturare un gruppo di protagonisti in questo modo. Tanto, che me frega? sembra sentirlo dire, questi se vojono solo spaventà coi bambolotti messi di spalle nel bel mezzo di Pripyat (sì, nella mia testa Peli parla romanesco).
***
Ma non basta, perché lui ha un fratello che vive a Kiev e… non ci crederete, è un fratello maggiore con cui… ecco, c’è sempre stata qualche incomprensione. Il fratello, ovviamente, ci prova con l’amica mollata.
I quattro sono diretti a Mosca, ma, idea geniale, andiamo a Pripyat, vicino Chernobyl, vediamo la città abbandonata!
Ok. E qui c’è da fare un ragionamento. Adoro Pripyat. Per ciò che è, per ciò che rappresenta: poetica e morte. Distruzione. Errore umano e conseguenze ineluttabili. Una specie di sepolcro riconquistato dalla natura. Letale a causa delle radiazioni.
Personalmente, dopo essermi documentato e consultato con esperti locali, io ci andrei anche, a fare una gita laggiù. Questo per dire che ci può stare che i quattro vogliano visitare quei luoghi pericolosissimi. È il fascino dei posti abbandonati.
Quello che proprio non tollero è:
1) l’ignoranza atavica che contamina, come le radiazioni, le menti dei giovani protagonisti. “Conoscete Chernobyl?”
“È il luogo dove c’è stato il disastro nucleare, vero?” Con la voce piena di dubbio.
Dialoghi a uso e consumo degli ignoranti che vanno al cinema. Chi non sa cosa sia stato Chernobyl non è di questo pianeta, dovrebbe andare a nascondersi. O magari aprire qualche libro.
2) il fatto che una tragedia immane della storia umana sia ridotta a una scampagnata, sottolineata da commenti idioti e estemporanei del gruppetto.
3) l’infodump. Cioè, di solito l’infodump è una di quelle cose su cui soprassiedo. Non mi dà particolarmente fastidio, a meno che la fase di spiegazione non occupi una parte lunghissima a scapito della narrazione principale.
I protagonisti hanno incontrato un orso. Non sto a spiegarvi come e quando, ma l’hanno visto, tutti.
Ora, non puoi far ribadire a uno dei personaggi che: “Ci sono anche gli animali. Questa mattina abbiamo visto un orso.”
Non si può. Punto. È stupido.
***
E veniamo alla parte horror. Allora, i nostri, guidati da un ucraino disorganizzato come pochi, si recano a Pripyat e restano bloccati, perché qualcuno ha danneggiato i cavi del furgone.
Non sono soli, evidentemente.
La cosa viene ribadita più e più volte, ovviamente, a turno da quasi tutti. Non siamo soli! Non siamo soli! Ci si interroga anche sulla possibilità che i cavi siano stati distrutti da qualche animale. Stamattina abbiamo visto un orso, ricordate?
Certo, certo.
Ora, la cosa davvero ridicola è la seguente. Il gruppo si sta mettendo sul furgone per rientrare in città quando è ancora giorno. Il furgone non parte.
Cosa fanno, sapendo che la zona è contaminata e che quindi, in ogni caso, non è bene trattenersi più del dovuto? Restano lì, nel furgone. Per ore.
Solo a notte fonda, dopo aver tentato inutilmente di contattare aiuti tramite walkie talkie, viene loro la brillante idea: dato che il posto di guardia dell’esercito dista solo venti chilometri, e che per fare venti chilometri a piedi ci vogliono 3-4 ore, perché non andiamo a piedi?
TA-DAAN!
E perché cazzo non si sono messi a camminare quando c’era ancora la luce?!??
Ma adesso è notte e lì fuori è troppo pericoloso. Quindi aspettiamo che faccia giorno.
Ma… a quel punto, le presenze che si aggirano in zona, Non siamo soli! Non siamo soli! opportunamente ignorate dalla guida ucraina interessata solo al dollaro, si manifestano. E sono cazzi amari. Più o meno.
***
E il film diventa ciò che sappiamo essere, un survival horror e un aggirarsi continuo e immotivato del gruppo all’interno di Pripyat, coi mostri che non si vedono, ma che si sentono e che sbattono porte. La bambina di spalle mostra di essere proprio ciò che sembra, una bambola messa lì, tanto per.
Non ci si spaventa e si sbadiglia. Tantissimo.
Si sorride allorché, dopo averne buscate tante e essere stati decimati, il fratellone si rifiuta contro ogni logica di abbandonare il posto a razzo perché: “È mio fratello! E nonostante mi tratti ammerda non posso lasciarlo lì!”.
Quindi, non solo mostri, ma anche psicologia spiccia e conflitti familiari che conoscono la catarsi all’ombra del sarcofago, quella lastra tombale che chiude il reattore esploso.
Se non fosse che lì c’è crepata della gente sul serio, mi verrebbe anche da ridere.
Per la cronaca, il film è stato girato dalle parti di Belgrado dove la troupe ha ricostruito, in un complesso industriale abbandonato, le zone di Pripyat, con l’ausilio di un po’ di CGI. E questo è l’unico aspetto di pregio di un film che cade a pezzi: sembra di essere davvero laggiù.
Per il resto, è sempre la solita minestra riscaldata made in Peli, col fascino dell’ambientazione esotica, già nota ai maestri del cinema russi. Quelli sì, veri maestri.
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