Attenzione! La seguente è un’opera di fantasia dai contenuti violenti, inadatta ai minori di spirito.
25 Dicembre 1835
L’uomo è grasso e calvo, la testa lucida di sudore, la pelle gonfia e tesa a formare un piccolo cuscino, fra testa e spalla. Si tiene al bordo più lontano del tavolino, con entrambe le braccia, la donna piccola e bionda seduta sul ripiano, gambe sulle sue spalle, a sopportare i colpi del bacino. Ritmo e rumore. Anche attraverso la finestra chiusa. Un piede di lei penzola, abbandonato.
Al piano inferiore, una damigella dalla pelle d’ebano insinua, lesta, le mani nel panciotto buttato sulla sedia; il cliente si lava l’arnese dietro il paravento discosto, fiori e foglie d’acanto, dorate. Ella sorride, i denti bianchissimi contro il volto scuro. Muove le labbra, lo stordisce di chiacchiere e parole di loto. Ebbre, pungenti. Ha trovato la cipolla d’oro, l’ignora. Raccatta qualche moneta dalla tasca, invece.
Sorrido. Mi sporgo per un attimo a controllare la via. Vuota, puzza di orina e merda di cavallo. Della presenza di Pietro, gettato in terra nel vicolo accanto al bordello, m’assicura la vista della scarpa di pezza e parte del pantalone marrone logoro. Finge d’essere ubriaco.
Guardo i tetti intorno, bui. La luce è quella dei lampioni, e di qualche finestra di chi ancora s’attarda a festeggiare la venuta del Figlio di Dio, con l’olio dei lumini e nenie che sanno d’epoche lontane. Mi accovaccio dietro il parapetto.
Germaine, accanto a me, solleva la testa di là del muro, guarda e ascolta il grassone che ha finito. Poi ridacchia, con le dita davanti alla bocca. Si abbassa, mi osserva. Al mio cenno interrogativo scuote la testa.
«Cosa stiamo sbagliando?» bisbiglio. Il respiro sublima in vapore acqueo.
Fa spallucce, arresa. Mi accarezza la guancia. Profuma di violetta.
«È un predatore, quello con cui abbiamo a che fare? E perché nessuno se n’è mai accorto?»
«Io non…» fa lei.
Mi rialzo. Faccio qualche passo rumoroso, sbattendo gli stivali. Il rumore riverbera nelle viuzze, s’infrange sui vetri e le porte serrate. S’ode un urlo di donna, sobbalziamo. Segue una risata. Mi affaccio, tre viandanti lungo la strada, paiono ubriachi, lei indossa un cappello con piume rosse e sporche.
«Le urla di quella notte, gli spari. Ci hanno sentito, come noi sentiamo questa gente» osservo. Mi abbasso di nuovo, continuo: «Un predatore caccerebbe in questi luoghi solo se fosse sicuro di passare inosservato.»
«Mi ha fatto un dono…» dice Germaine, assorta.
«Quello di non guarire mai?»
Fa cenno di no, lenta.
Se ne accorge prima di me, lunghi istanti prima. Dopo li sento anch’io, passi lungo le scale del palazzo sul quale ci troviamo. Giungono da lontano, ovattati, in una dimensione di sogno, a distanze impossibili fino a qualche tempo addietro.
Germaine s’avvia silenziosa, inerpicandosi leggera lungo la parete. Si ferma sullo stipite, s’accuccia. Con una mano frettolosa, solleva il lembo d’abito che pende sulla porta.
Con la punta delle dita, sfioro il calcio di legno della pistola.
***
6 Dicembre 1844
Il riverbero del fuoco fa risaltare i contorni lisci, morbidi. I glutei rotondi spiccano dal lembo di coperta porpora.
Con la punta dell’indice l’accarezzo, lungo la schiena, l’incavo alla base. Sulle spalle porta il disegno di un pentagramma. Ci sono alcune note, nascoste tra i capelli lisci, e la chiave di violino. Sul fianco, uno sciacallo messo a terra, le zampe lunghe e unite, stese davanti, le orecchie a punta, ritte.
«È Anubi» spiega, mettendosi su un fianco. Gioca coi peli sul mio petto. Un piede spunta da sotto la coperta, sul tappeto, accanto al mio.
«A Lui sono rivolte le tue preghiere?»
Sorride. Si aggiusta la frangia. «Tu ci credi davvero in questa scienza…»
«Tu no?»
«Se credo che Anubi mi aspetti di là del fiume per pesare la mia anima contro una piuma? No…»
Mi metto seduto, avambracci sulle ginocchia. Sbuffo.
«D’altro canto…» ricomincia, «Anubi è colui che presiede l’imbalsamazione dei corpi. Mi chiedo, dunque, se qualcheduno gli sia sfuggito, o l’abbia lasciato andare di proposito, perché faccia pesare il nostro spirito.»
«Parlami della cassa.»
Solleva gli angoli della bocca e s’avvicina, sinuosa e profumata di oli. I seni sobbalzano, assecondandone il movimento.
«Mi crederesti, Cavour, se dicessi che dentro quella cassa riposa un Dio?»
Passi, nel corridoio. Guardo alla finestra, il cielo è rossastro.
Mi alzo e mi rimetto i calzoni. Le faccio un inchino alla francese e le dico d’aspettare. Si rimette distesa sui cuscini, coprendosi. Ride.
Esco dalla stanza richiudendomi la porta alle spalle. Nel corridoio trovo Germaine, gli occhi che lacrimano sangue. Il viso rigato fino al mento. Respira veloce, col petto che s’alza e s’abbassa. Si tocca il ventre con entrambe le mani, la zona di tessuto fradicia di scuro.
«Gli insetti…» mormora, «sono migliaia.»
La sollevo. Mi passa le braccia intorno al collo, stringendosi, affannata. «Sta nascendo» sussurra a un orecchio.
Sulla porta della sua stanza, si divincola e si scuote, preda di convulsioni. Scivola a terra. Picchia coi gomiti e i talloni sul pavimento. La macchia sul vestito s’allarga in un pozza maleodorante. Vomita.
Afferra le braccia, preda di tremiti. La stringo. Con una mano l’accarezzo, tenendola accosto, finché non s’addormenta.
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