Attenzione! La seguente è un’opera di fantasia dai contenuti violenti, inadatta ai minori di spirito.
6 Dicembre 1844
Mantengo tesa, contro la corteccia, la corda che gli scorre sotto il mento, mentre Pietro lega un secondo pezzo a un polso, poi all’altro, passando la cima attorno al fusto.
Si alza e mi dà uno schiaffo sulla nuca, m’accorgo che ha finito. Lascio un’estremità. Lui s’affretta a recuperarla, passandosela in anelli larghi attorno a gomito e pollice. Finito, la getta in terra, accanto alla spada e ai moschetti.
S’accovaccia davanti al militare che tossisce, sul punto di svenire. Un filo di bava gli cola dall’angolo destro della bocca. La gola arrossata si contrae. La camicia e il pantalone zuppi di sangue.
Pietro molla un ceffone. Quello si ridesta sorpreso e, per un istante, dimentico di tutto. Un solo istante.
«Siate dannati entrambi…» biascica.
Pietro si rialza. Mi invita con un cenno della mano a prender posto, come fosse un maître e dovessi accomodarmi a un tavolo colmo di paste e cioccolato. Per un momento, odo ancora la risata di Germaine. Era gelosa di Nina, assaporava un sorbetto, tra volute di fumo azzurrino e calici d’assenzio verde, mentre il quartetto d’archi intonava una sonata. Parigi tracimante merda secca, imbellettata di trucchi.
Indico a Pietro la spada. Sbuffa, si piega, la prende dal fodero e la lancia.
L’afferro al volo. Punto il pomello sulla guancia del soldato, sollevandogli il viso verso il mio.
«Dov’è il Re?»
Quello ride, gli occhi ebbri e spaventati. Suda ancora.
«Dove la tua cagna non potrà più toccarlo…»
Tossisce, sputa un grumo di sangue e catarro.
Catturo l’attenzione mostrandogli l’indice, solo quello. Poi lo avvicino alla pancia. «Dov’è il Re?» domando. E affondo il dito nello squarcio.
Il soldato si tende, le vene gonfie, sulla gola e sulle tempie. Trattiene il fiato, poi bestemmia. Gli occhi s’arrossano, medesimo color del volto.
«I-il Re è morto, maledetto!» urla. Poi abbandona la testa, preda dell’affanno.
Il sangue fluisce caldo attorno al dito. Lo estraggo.
Sussulta, si morde le labbra, geme e infine urla.
M’avvicino a Pietro, gli passo la spada. Lui accosta l’altra mano stretta a pugno alla bocca aperta in una “o”, spingendo la guancia dall’interno con la punta della lingua, ritmica. Da quando ha perso la voce, s’è spalancata per lui la carriera circense.
«Dubito che la Dama c’entri qualcosa, in questa faccenda…» osservo.
Fa una smorfia e solleva le spalle, deluso.
«È stata lei! La puttana di Satana l’ha ammazzato. Quella che vi portate appresso! L’hanno vista!» strilla la guardia. S’appende, la cima si tende, le dita sono gonfie e violacee. Sussulta, piange.
Mi sposto. Lo colpisco sullo zigomo col pugno che ancora mi sto muovendo.
Gli prendo la testa tra le mani, stringendo ciocche di capelli. «Come!?» grido.
«Oh, Dio!»
Gli sbatto la nuca contro il tronco. «Come!?»
Mi guarda, trema. «L’hanno squartato… d-dopo averlo appeso per i piedi… c-come si fa coi maiali» farfuglia.
Lo lascio, mi allontano. Impreco, sbattendo gli stivali in terra.
«E…» ricomincia.
Pietro si fa appresso, invece, intento.
«…gli hanno staccato la testa. Solo un diavolo può fare queste cose!»
Raccolgo il moschetto. Abbasso il cane. Lo punto addosso.
Il soldato geme, scuote il capo. Urla.
«Se è senza testa…» comincio.
Schiaccio il grilletto.
Un scoppio squarcia la cappa di nebbia del bosco. Uccelli s’agitano tra i rami, nel sonno. Il riverbero si frammenta tutt’attorno diluendosi ancora nel silenzio. «Come fai a sapere che è il Re?»
***
27 Dicembre 1835
Al terzo cucchiaio di minestra, mi pare di scorgerla ancora: una coppia d’ali d’insetto, guizzanti dietro la sua spalla.
Deglutisco, lancio il piatto verso la parete. Germaine sobbalza quando mi getto su di lei, afferrandole le spalle. La spingo, gravandole addosso. Poi insinuo la mano tra schiena e letto, cercandola. Non trovo nulla.
Per un istante mi fermo, respiro. Lei rimane immobile, distesa, gli occhi nei miei.
«Che succede?» domanda, ma è più un sussurro dolce.
Afferro il lembo della sua camicia, vicino ai bottoni. La strappo. Il seno sobbalza, si contrae a contatto con le mie dita fredde.
Tasto il ventre piatto. Si tende anche quello, per il gelo. Fa la pelle d’oca.
Non sento niente, sotto il palmo.
La sua mano si stringe attorno al mio polso, come avessi urtato il letto d’un fachiro indiano, tanto forte è la presa. L’allontana.
Annuisco, frenetico. Riesco a tranquillizzarla. Mi lascia.
Mi rialzo, scostandomi. Barcollo fino alla toletta di legno scrostato. Infilo le mani nella bacinella fino al gomito, procurando uno spruzzo d’acqua abbondante che finisce per terra, sulle assi, chiazzandole di scuro. Mi sciacquo il viso.
Il vecchio specchio di bronzo sul muro è lucido solo al centro, tra graffi e bozzi che paiono unghiate. Mi restituisce un viso giallo, largo, i capelli radi e gli occhi stretti. Cattivi, come diceva Nina.
Tra la barba spuntano fili bianchi. «Tu non l’hai vista, vero?» chiedo, voltandomi.
«Cosa?» fa, seccata. S’è rimessa seduta a riabbottonarsi la camicia.
Goccioline d’acqua scivolano sulle guance. «Sono sveglio, adesso?» insisto.
Si mette in piedi, sbuffa quando s’avverte che mancano i bottoni. Viene accanto, m’accarezza. «Appena fa giorno, me la ricompri.»
L’abbraccio. Lo sguardo saltella distratto, dalla mensola col mozzicone di candela acceso e la fiamma tremolante alle chiazze di minestra sul muro e la ciotola rovesciata per terra. Dal letto disfatto, alla macchia sulla coperta,…
Stringo gli occhi. Tocco un punto della schiena di Germaine che pare bagnato. Mi discosto, osservando le dita. Sono rosse.
Germaine guarda anche lei, strabuzza gli occhi. Tenta di esaminare la spalla con l’ausilio dello specchio, contorcendosi.
Sul letto, la macchia s’allarga lenta e scurisce. Avvicino il polpastrello al giaciglio umido. Lo ritraggo. È sangue, come sulla camicia
«La bambina è qui dentro… solo che non riusciamo a vederla.» affermo, rauco.
«Eh?» fa Germaine, ancora impegnata a torcersi.
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