Attenzione! La seguente è un’opera di fantasia dai contenuti violenti, inadatta ai minori di spirito
10 Dicembre 1844
Getto un ciocco nel falò, con un rametto stuzzico la brace, si ravviva.
Guizza una lingua di fiamma, lambisce appena le ali d’una falena imprudente; s’accartoccia, cade. Soffice, muove le minuscole zampette, si trascina, le ali tronconi anneriti. Si ferma.
Giunge alle orecchie il nitrito dei cavalli nervosi, dentro alla stalla cadente e spalancata.
Mi stringo nella coperta di lana grezza, soffio il vapore. Mi volto, il bagliore dietro gli spessi vetri della finestrella della baita s’indebolisce, la Dama dev’essersi addormentata, sfiancata dalla febbre.
Ascolto i sussurri del bosco. Qualcosa smuove i cespugli, i piccoli rametti in cima agli alberi, copre la luna, informe, quando le passa davanti.
Guardo ancora la falena. Due dita adunche, le unghie violacee appuntite, la raccolgono.
Cado dallo sgabello per il sobbalzo. La creatura si sfila il cappuccio di iuta, porta la mano alla bocca scarlatta, che spicca in contrasto alla pelle candida come lenzuolo. Il naso a carota, sporco di sangue e cosparso di bitorzoli. Due corone di denti aguzzi accolgono la piccola preda, la trafiggono. Una zampetta finisce per muoversi ancora, sul labbro inferiore. La raccoglie con la lingua nera e pastosa, l’ingoia.
Sotto la cuffia marrone d’un pellegrino, con le code penzolanti ai lati del capo, occhi vuoti riflettono nel profondo la luce arancione, fatui, come la puzza di zolfo che spinge il mio naso; il viso dell’essere, fasciato in una tunica, s’arcua in un sorriso isterico, che va da zigomo a zigomo.
Batte un paio di volte lo scarpone con la fibbia quadrata, d’oro, quella parte di gamba che s’affaccia sotto la gonna pesante, solcata di vene bluastre.
«C-Chi…»
Credi davvero di riuscire a vedermi, vero, Cavour? Credi ch’io abbia una guisa, e invece ho solo una Mente, ch’io sia mortale, invece lo sono i miei stolti figli, credi d’aver ammazzato mio padre, uscito da quel sarcofago, e invece…
Parla con la voce della mente, senza muovere le labbra, fisse a tracciare una falce color sangue.
La brezza gelida s’artiglia dietro la nuca sudata, spingendo un brivido che corre di lato lungo tutta la schiena, fino a terra.
«Che cosa… volete?»
In questo hai ragione. Sono io… a volere. Soltanto io.
Raccolgo le forze, le tempie pulsano, grido: «Perché… perché io! Che cosa volete!?»
Mostrare agli uomini che non esiste il Fato, che il Papa resta tale anche con le mani macchiate del sangue d’un Re. Sei qui per caso, e anche perché ti ho scelto. Non sei speciale, putrido sacco di carne che più d’ogni altra cosa agogna riempire la femmina nera di seme, rotolandosi con lei e insieme all’altra, la vergogna dell’uomo…
«Siete voi ad aver dato a Germaine… il dono!»
L’essere emette rintocchi che paiono una risata, lenta e oscura. La noia, Cavour, è l’unica cosa in grado d’ammazzarmi.
Il drappo si scuote, emette un rumore sordo, mentre ella allarga le braccia e scatta su di me, coprendomi. Dalla bocca cola un filo di bava, dalle pieghe del mantello spunta la fata di carne putrida, atterra sul panciotto, si stiracchia e dà un colpo d’ali. M’entra in bocca. Serro i denti, mentre quella spinge, allarga le labbra con le manine, emette un lamento sottile, frustrato, osceno.
Chiudo gli occhi, mentre il formicolio sovrasta tutto il resto, anche il pensiero. Resto immobile ad aspettare il dolore.
M’arriva una botta, sul fianco. Pietro mi gira intorno, solleva lo sgabello, si sistema. Porge una tazza di coccio, fumante. Mi sollevo, mi riavvolgo nella coperta, l’afferro con entrambe le mani, il calore sui palmi e sulle dita è confortevole.
Bevo. Sputo, è solo acqua calda.
Resta a fissarmi con un ghigno di sollazzo e scherno. Per essere muto, s’esprime fin troppo bene.
Mi fa cenno di rientrare in baita.
Gli porgo la coperta. «Sono stanco, Pietro. O forse pazzo.»
Si distoglie e passa a esaminare il fuoco, porta la tazza alle labbra.
***
Germaine poggia lo straccio umido sul bordo della bacinella, intreccia le dita, solleva le braccia e si stiracchia. La luce della candela la dipinge di luce ocra, come un quadro del Caravaggio.
«Ma sei stanca davvero?»
Si volta di scatto. «Non ti ho sentito entrare… No, solo annoiata.»
L’accarezzo col dorso delle dita, la pelle più fredda d’una persona viva, ma più calda d’un morto.
«Come sta?» Allungo un braccio.
La Dama ansima e scotta sul pagliericcio, madida di sudore, ciocche di capelli attaccate alla fronte.
«La gamba non puzza ancora, se è questo che intendi…»
Siedo sul bordo del letto, prendo la bugia e l’accosto alla fasciatura, s’è già formato l’alone giallastro.
«Dovrete tagliarla via… Non è così?» È lei ad aver parlato, in un sussurro, tenendo gli occhi serrati. Poi li apre in una fessura.
Germaine sistema la bacinella sulla sedia, immerge uno straccetto nell’acqua. La interrompo, prendendole il polso. Molla lo straccio e s’allontana.
Stringo la pezza nel pugno, la stendo sulla fronte.
«Come vi chiamate?» domando.
Ella accenna una risata. «Prima mi sparate, e ora mi fate gli occhi dolci?»
«Guarirete.»
«Lamia.»*
«Cosa?»
Sorride.
«Dalle labbra colorate… È questo che vuol dire, il mio nome.»
Mi sforzo di continuare a muovermi. Bagno ancora lo straccio, lo strizzo nel pugno concentrandomi sull’acqua che cola tra le dita.
Richiudo la porta.
Germaine lascia ricadere il mazzo di carte ingiallite sul tavolo, si alza, ansiosa. Passo intorno al tavolo, do uno sguardo attraverso la finestra: Pietro è una sagoma nera contro le fiamme.
Le dico di ravvivare il fuoco nel caminetto di pietra grezza. Guardo alla carta scoperta sotto il resto del mazzo: il Mondo.
«Cosa ci faceva un allevatore coi tarocchi, secondo te?»
Germaine, accucciata, manovra l’attizzatoio come un fioretto. «Teneva lontana la febbre dalle sue bestie? Gabbava il demonio?»
Guadagno una sedia, la metto accosto alla parete e mi sistemo.
«Stanotte non siamo riusciti a fare né l’una né l’altra cosa…»
Si pulisce le mani sul vestito, viene ad accoccolarsi a cavalcioni sulle gambe. Mi prende la testa fra le mani.
«Che diavolo è successo?»
«Io non…»
Mi chiude la bocca con le labbra, spinge il seno rotondo contro il mio petto, mi stringe tra le gambe, si struscia. Fa un gemito basso, mentre con la mano risalgo la coscia.
(continua…)
*Le lamie dell’antichità greca erano figure in parte umane e in parte animalesche, rapitrici di bambini; fantasmi seduttori che adescavano giovani uomini per poi nutrirsi del loro sangue e della loro carne.
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