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Cavour Cacciatore di Vampiri 2 – Capitolo 3: Torino

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Attenzione! La seguente è un’opera di fantasia dai contenuti violenti, inadatta ai minori di spirito.

8 Dicembre 1844

Il bagliore dei tizzoni nel braciere punta dritto allo sfregio sul collo di Pietro il Vecchio. Lui sorride, i denti ingialliti, un buco nero nella fila inferiore, un incisivo d’oro sul quale si riflette il rosso del fuoco. Un dannato Plutone dalla voce chioccia, cinto d’aria vibrante.
Guardo l’altro Pietro, cadavere, sotto al quale s’allarga una pozza nera. Anche su quella danzano le fiamme delle torce. E sulla gola, a mostrar la cicatrice. Identica.
«Avanti, dillo!» urlo, «Dillo: pape satan…»*
Pietro solleva gli angoli della bocca, abbassa il mento, si mantiene la pancia mentre ride, una risata senza suono, fatta d’ansimi e catarro. Nero demonio comparso dall’ignoto.
La dama d’Oriente bestemmia le sue divinità, augurando a Set di ficcarsi la testa di Horus nelle viscere, che il becco appuntito lo squarci dal di dentro; mantiene la tibia con entrambe le mani, dita solcate di sangue, viso di lacrime, denti che hanno intaccato il labbro inferiore. Mi guarda. «Aiutami, che tu sia maledetto!» sbotta.
Torno a esaminare il cadavere, anche la marmaglia di adoratori pare aver notato la somiglianza, alcuni passano dal giovane Pietro alla mia testa, volata accanto al coperchio spaccato del massiccio sarcofago. La mano artigliata della Creatura stesa lì davanti, un’unghia spezzata tra le lastre del pavimento, negli spasmi. Uno degli uomini, pelato e lucido di panico, mi punta addosso il dito, bercia qualcosa. L’altro lo strattona per la spalla, indica di nuovo alla testa per terra. Il braccio della creatura riprende a muoversi, insieme al corpo.
Il gruppo si strattona, si spinge, si dirige fuggendo alle porte; uno di essi incespica, finisce ginocchioni, sorretto e trascinato a forza dai compari. La dama rivolge loro parole incomprensibili ch’agghiacciano per il tono.
Germaine immobile, in piedi, come me a fissare il mostro che sta risorgendo in preda ai fremiti.

 

Pietro mi dà un buffetto sul gomito, fa cenno di andargli appresso, indica il coperchio massiccio. S’accovaccia accanto alla metà più piccola, la sposta. Protende il mento all’altra estremità e poi a me. Mi piego anche io.
La solleviamo, l’accompagnamo con passi pesanti e un certo affanno, l’alziamo sulle nostre teste, mettendoci sopra al vampiro. La caliamo sul cranio dell’essere, una, due, tre volte, fino a che del teschio resta un piccolo piattino concavo pieno di poltiglia grigia e marrone.
Pietro raccoglie un’asta puntuta coi ciondoli, va spedito verso la dama, che si mette a strillare, scalciando e subito dopo contorcendosi per le fitte alla gamba.
Urlo di fermarsi, poi a Germaine, che la prenda in braccio. Il petto di quest’ultima di solleva e s’abbassa, i tendini sulla fossetta del giugulo tesi come corde, fa di sì scrollando la testa con forza, come a convincere innanzitutto se stessa.
«Pietro! Raccogli tutto quel che può servire! Poi brucia il Signore Pallido, ma lascia stare i nostri corpi! Muoviti!» grido.
Lui mi fissa, si ricorda di quel nome e abbozza uno sguardo d’intesa. Si guarda intorno, fruga tra i corpi di due adoratori e trova una fiaschetta d’olio.
Germaine afferra la dama per il collo, sollevandola con la forza d’un solo braccio. Quella spalanca gli occhi, tentando di liberarsi dalla stretta con entrambe le mani. Non c’è modo migliore per suggerire l’inutilità di tentare di far del male alla mia compagna, è solo un’idea folle.
Frugo nella giaccone di pelle e nei pantaloni della donna, nei risvolti degli stivali ci trovo uno stiletto. Lo infilo nel mio panciotto.
«Sali in groppa» fa Germaine, rivolta alla dama dalla pelle di bronzo. «E non far sorprese, o ti spezzo il collo come un ramoscello.»
Lei esegue, docile, cingendole il capo e mettendosi a cavalcioni.
Pietro versa l’olio sul corpo del mostro. L’acciarino fa scintille più lucenti del sole, l’olio s’accende in una fiammata che ricopre, liquida, la carne antica. Crepita come legno secco e puzza come i topi che infestano il fango delle trincee nei giorni di pioggia, portando la peste coi loro denti aguzzi…
M’impongo di distogliermi, mi rivolgo alla dama: «Hai una carrozza, dei cavalli?»

Torino

Risaliamo, cerco di far stare la mente quieta, mentre tutto intorno a me bisbiglia follia, i quadri alle pareti, il grande ritratto del Re, le targhe di marmo incise in lingua italiana.
«Dove siamo?» sussurro. Solo Pietro si volta a scrutarmi, capisce che non è una vera domanda, o che non è il caso di rispondere.
Il cortile notturno è vuoto, la carrozza presa dagli adoratori in fuga, una sella di cuoio in terra, sotto il colonnato. Il suono degli zoccoli sul lastricato ci indica un sauro macchiato, che trotta fra le colonne, scuotendo la testa, sbuffa dalle froge.
«Prendilo, adagio» ordino.
Pietro allarga le braccia, si muove lento, pizzica le labbra, schiocca la lingua.
M’accingo a ricaricare le pistole, bestemmio quando scorgo che il corno della polvere s’è spaccato, è vuoto.
Colpi pesanti percuotono il portone: «Aprite, è la Guardia!»
Germaine posa la Dama in terra, questa subito s’appoggia a una colonna e poi resta sorpresa, ché la prima invoca aiuto.
Il portone s’apre, la guardia impugna la pistola, seguita da una seconda, armata anch’ella.
«Aiutateci» implora Germaine, «c’hanno aggredito!»
Pietro s’arresta, i due gentiluomini ci urlano contro. Sollevo piano le mani, mettendo i palmi sul capo.
«Che succede?!» ringhia la prima guarda, poi sembra riconoscermi. Si fa incerto. Ma Germaine s’è già mossa alle sue spalle, insinua una mano sotto al cavallo dei pantaloni e stringe. L’uomo ulula, scomposto.
Lei lo solleva e lo scaglia contro l’altro come stesse tirando una palla di neve. Odo netto il rumore delle ossa che si schiantano l’una con l’altra. I soldati restano accartocciati, come calpestati da un reggimento.
Raccolgo pistole e spade, corni di polvere da sparo.
Fuori, legati, ci sono i loro cavalli.

sonda

***

Scruto il profilo della città dalle colline che la cingono, impossibile confondersi: Torino. Si stende quieta, ornata di poche luci, cinta di bruma. Il cielo sta schiarendo.
Le grida della dama fanno da sfondo, appoggiata contro un tronco di quercia, Pietro sonda la ferita con la cerca-proiettili, trova un ostacolo, la ruota, estrae il filo e controlla la sfera di porcellana** che ne costituisce la punta. Mugugna e la rimette tra le carni, tra proteste e altre bestemmie. Innervosiscono i cavalli.
«Che facciamo? Il sole sta per sorgere…» Germaine mi osserva preoccupata.
Scorgo il tetto spiovente di una cascina, poco distante. «Ci rifugeremo lì, per oggi. Poi torniamo a Leri, poi ce ne andremo ancora più lontano.»
«Ma che cosa…»
«Non domandarlo. Non adesso.»
Pietro saggia ancora la punta della sonda, grugnisce soddisfatto, afferra la pinza.

(continua…)

* Dante Alighieri, Inferno, Canto VII.
** è la sonda cerca-proiettili di Nelaton. Sono incerto circa la data della sua invenzione e del suo effetivo impiego. Potrebbe non essere ancora esistita nel 1844, ma solo qualche anno dopo. In tal caso, consideratela una licenza poetica.

Pagina del Risorgimento di Tenebra e capitoli precedenti QUI

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    • 11 anni ago

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    • 11 anni ago

    MFP!

      • 11 anni ago

      Ao’, a guera è guera…