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Brian Despain e il dialogo sui Robot

bd_06Nel presentarvi, in questo articolo del venerdì, i lavori di Brian Despain, ho scelto di inserire la parola “dialogo” nel titolo, perché tale è il senso e il significato di ogni messaggio.
I disegni, le pitture, le tavole figurative contengono un messaggio esattamente come qualunque testo scritto, questo a patto di possedere le chiavi del disegno e della parola.

Brian Despain è detto appartenente alla Lowbrow Art, movimento che sorse a Los Angeles sul finire degli Anni Settanta, e che sembra peculiare di quella terra, priva di un sostrato storico-culturale millenario, che i discorsi sull’arte, pur necessari, li ha fatti contaminando tutto ciò che era espressione.
Lo stesso Despain non è artista “puro”, ammesso che questa definizione abbia un senso, essendo stato nel corso della sua esistenza, graphic designer, creatore di modelli 3D e creatore di videogiochi e avendo praticato svariati altri lavori.
A pensarci, è uno di quei percorsi che, tenendo lontano il suddetto da quelli obbligati, dalle celebri accademie, ne ha fatto un artigiano, con le mani sporche di vernice e colori, formatosi nella cultura pop, che io adoro, e che ritengo movimento artistico del Novecento essenziale e definitivo, perché capace di protrarsi nei secoli, proprio per questa caratteristica intrinseca di assorbire suggestioni non solo dai campi considerati nobili dell’animo umano:

l’amore, la morte, la sessualità, la sofferenza, la guerra, le immagini sacre

ma anche

dalla strada, dai blockbuster, dai fumetti, dai graffiti, dai cartoni animati

Un connubio unico e spontaneo, mille volte più immediato e, a mio parere, ineguagliabile per l’immediatezza con la quale parla alla gente.

Quindi, il dialogo di Despain possiede forza inusitata, quando decide, probabilmente, di unire il suo amore per l’arte figurativa coi robot, in una serie di tavole eccezionali.
Robot che sanno d’antichità, di ottone battuto a mano, di metallo piegato e battuto dalle robuste mani di fabbri umani, che profumano di olio lubrificante, in un paesaggio che, di volta in volta, appare in tempesta e contaminato da antichi conflitti.

Varie suggestioni.
Il binomio robot e pesci, presente in molte di esse, è indicativo: tenendo conto che il pesce è il simbolo del divino, della quasi totale assenza di figure umane che non siano teschi, che quindi parlano da un passato terribile e fatale, o riproduzioni di metallo (umanoidi robotici), della presenza di elettrodomestici, che sono traccia del nostro passato, stando alle linee vintage; tutti questi indizi sembrano suggerire il futuro dell’umanità, ossia il nulla. Un futuro lasciato all’intelligenza artificiale, con la silenziosa benedizione divina, la cui intelligenza continua a parlare con le creature che ci hanno soppiantato: i nostri figli artificiali.

Un mondo che predilige i colori caldi, ma tenui, una natura selvaggia che coesiste con le creature artificiali e che la guardano ponendosi interrogativi assoluti, così come abbiamo fatto noi stessi. I robot sono, pur sempre, immagine e somiglianza dell’uomo.

Since then I’ve held all sorts of jobs, from graphic designer to 3D modeler, photo-retoucher to illustrator. I’ve studied, learned, grown and spent a lot of time as a professional artist making a decent living doing art, but in all that time and through all those jobs I’ve learned one all important thing. It was the time I spent, like the kid at the kitchen table, creating art for no other reason than sheer wonder of it all, that I was happiest. No matter the piece or the end result it’s the art that we do for ourselves that wholly reflects us as people. It is that art which is purest, it is that art which holds the most magic, it is that art which connects on the deepest level […]

L’arte, quindi, che assorbe emozioni, che riflette ciò che siamo. Che ci identifica in quanto esseri viventi.

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