Cinema

Blindness (2008)

Un film sulla cecità dovrebbe divenire un’esperienza tattile e olfattiva, non solo uditiva. Ma, essendo Blindness stato scritto e concepito per spettatori vedenti, ci si è basati sull’impatto immaginifico e potente dei set.
Se ne discute da un po’ di anni. Ogni tanto ritorna in auge la questione esperienza totalizzante del cinema. Che equivale a un’immersione dello spettatore nella realtà virtuale. Non già solo 3D, ma anche tutto il resto: odori, temperatura, sapore, tatto, gusto. Sembrerà di essere sul ponte ologrammi di una qualsiasi nave stellare della Flotta.
Ma il sogno, proibitivo, è sempre lì.
S’era addirittura ipotizzato, se non ricordo male, un’apparecchiatura in grado di rilasciare fragranze nell’ambiente quando anche i personaggi, nel film, dicevano di avvertirne l’essenza, qualcosa da integrare all’impianto dell’home theatre. Se gli attori si fossero trovati nelle fogne, be’, vi lascio immaginare…
Blindness, tratto da un racconto di José Saramago, è un apocalittico. Tappeti rossi per lui, quindi. Come per qualsiasi altro prodotto che annienti, o quanto meno ridimensioni, la razza umana.
L’infezione causa cecità, una cecità che precipita il mondo in una dimensione lattea, lucente. Il contagio è rapido, il decorso ancora più veloce.
Segnalazione di Alex, che ho preso in parola.
Giudizio breve sul film: un po’ lunghetto, con uno score smielato, fatto di pianoforte, che si finge intellettuale. E, inoltre, un’interessante, quanto anomala rappresentazione della fine del mondo.
Se non una fine, un riassestamento.

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[contiene qualche anticipazione]

L’infezione colpisce all’improvviso, senza sintomi. Si diviene ciechi da un momento all’altro, mentre si è impegnati nelle attività quotidiane, qualunque attività: dal sesso, al guidare per recarsi al lavoro. C’è chi si risveglia scoprendo di essere nel bianco più totale.
Data la virulenza della patologia, il governo opta per una risposta decisa, destinando dei vecchi complessi ospedalieri a zone di quarantena in cui gli infetti, ormai tutti ciechi, vengono abbandonati a loro stessi, privi di un qualsiasi supporto da parte di personale specializzato e nutriti lanciando nel cortile del complesso casse di viveri, come nelle zone di guerra.
Tra gli ammalati si creano subito nuovi equilibri gerarchici, una volta capito che le autorità non hanno alcun interesse a interferire con “le politiche” interne alle zone di quarantena.
La struttura diviene ben presto uno strano labirinto, di facile memorizzazione, preda del disordine, dei soprusi, della sporcizia. Un microcosmo fatto di persone che inciampano, che hanno perso la sicurezza dei movimenti, che cadono e si feriscono, e che tentano di picchiarsi dopo essersi prima cercati, a lungo, con le mani.
Ma c’è un’eccezione, la moglie (Julianne Moore) di un oculista infetto, che ha voluto seguire il marito in quarantena fingendosi cieca risulta, in realtà, immune alla malattia. La vista, in un piccolo mondo fatto di buio, sia pure lucente, fa la differenza, reca con sé un potere quasi assoluto, ma ci sono gli scogli e le riserve della propria umanità da superare, per far fruttare questo grande potere. E non sembra essere una cosa così ovvia, la conseguenza di questa presa d’atto della realtà.

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Blindness è diviso in due parti: la quarantena e l’esterno.
Senza scendere nei dettagli più del dovuto, la parte della quarantena è di gran lunga la più debole dal punto di vista dell’impianto scenico, proprio perché costruita e addossata sulle spalle di Julianne Moore, l’unica vedente.
Riconosco che non avrebbe avuto molto senso girare un film al buio; e va anche aggiunto che le poche sequenze viste attraverso gli occhi degli infetti sono anche le più noiose, ma… si sarebbe dovuto insistere sull’aspetto dell’adattamento e della sopravvivenza degli infetti, anziché affidarsi solo ed esclusivamente su azioni note dell’unico personaggio sano. Azioni che conosciamo, perché sono quelle che compiamo tutti i giorni.
E così, i grandissimi abusi messi in atto dalla popolazione della Corsia 3 ai danni di tutte le altre, sanno, al di là della natura esiziale di alcuni di questi, di ripicche e prepotenze fatte da sventurati ad altri poveri sventurati che non hanno la forza o il coraggio di sottrarsi a questo nuovo mondo caratterizzato, però, da abitudinarie vigliaccherie. Pochissimo tempo ai ciechi, dunque, e molto alle reazioni umane troppo umane di Julianne Moore.

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Seconda parte, il mondo esterno. Quelle che erano ottime premesse lasciate da parte per insistere su un approfondimento psicologico non necessario e, senza dubbio, meno interessante rispetto a quanto avrebbe potuto esserlo quello dedicato agli infetti, vengono per fortuna riprese, anche se non sviluppate come avrei voluto, nella parte conclusiva del film, cui è dedicato l’affresco esterno, sulla “nuova” società del dopo infezione.
È solo una città, ma forse è il mondo intero. Abitato da miliardi di ciechi che arrancano affidandosi agli altri sensi che non hanno mai avuto necessità di utilizzare più del dovuto, secondo lo stretto necessario.
La sporcizia generale è un aspetto di solito trascurato da ambientazioni di questo tipo, ma non qui. La città, così come le corsie dell’ospedale, sono sommerse dai rifiuti e dal luridume, lo stesso che ricopre gli abitanti. Questi non sono sopravvissuti, sono sempre gli stessi privati, però, del senso fondamentale. Immaginate, quindi, un mondo dove si tenta di andare avanti senza la vista. Dove i crimini sono all’ordine del giorno (ammesso che si riesca a commetterli), dove nessuno si cura di seppellire i morti e per nutrirsi si è costretti a gettarsi in risse indefinite, seguendo l’odore dei cibi sgraffignati, con difficoltà, dai banconi dei supermercati abbandonati.
Ecco, questo piccolo e agghiacciante quadro ripaga di tutta la lentezza che assedia i primi tre quarti d’ora.
In definitiva, è una cecità che si affida troppo allo sguardo degli spettatori e mostra, quando avrebbe dovuto tentare di raccontare. Impresa impossibile, certo. O attesa per un nuovo modo di intendere il cinema.
Per gli amanti del genere apocalittico, in ogni caso, un buono spettacolo.

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  • 😉

  • Beh, sembra interessante, dopotutto.
    Ti ho inviato un paio di cosucce, tanto per non perdere le buone abitudini.
    Se ti va, potresti includere questo blimdness nel tuo prossimo invio… senza fretta, eh. 😉

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