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Black Mirror – stagione 3: White Christmas

blackmirror_whitechristmasIndicato come l’unico (finora) episodio della terza stagione di Black Mirror, White Christmas conferma ogni aspetto di quella che, lo sapete, considero la più bella serie televisiva di sempre.
Perché Black Mirror è attuale, pur proiettata in un prossimo futuro.
È distopica, esplorando gli effetti collaterali, quasi sempre indesiderati, dell’applicazione naturale della tecnologia, soprattutto informatica, nelle nostre vite interconnesse.
È realistica, perché molti atteggiamenti ipotizzati da Charlie Brooker, autore della serie, e dai suoi collaboratori, hanno trovato e trovano puntualmente riscontro nel mondo reale, penso a Waldo, un pupazzo gestito da un comico che diviene capo del governo, ai terroristi che utilizzano il ricatto e la distruzione della vita sociale delle loro vittime al posto di ordigni esplosivi, recando se possibile anche più danno, all’annullamento, paradosso di quest’epoca, della capacità di comunicare, in seguito all’appiattimento dell’emotività, al concetto di anima.

Episodio autoconclusivo, come sempre, si incentra in tre sezioni, una delle quali provvede da cornice alle altre due, narrate all’interno della prima. Uno schema narrativo che più classico non si può, eppure efficace.

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L’anima.
Nella seconda stagione, quello che è il mio episodio preferito, Be Right Back, aveva già affrontato un tema importante, con le cui congetture, per ora ancora a livello fantascientifico, sono pienamente d’accordo.
Per metterla in parole povere, si potrebbe affermare che la nostra personalità, la traccia di sé, il nostro essere o addirittura la nostra anima sia nient’altro che l’insieme schematico dei nostri neuroni, e delle connessioni che essi hanno stabilito nel corso degli anni e delle interazioni che noi stessi abbiamo avuto/subito con l’ambiente circostante.
L’idea è che se si riuscisse a copiare su un supporto al silicio questo schema, copieremmo la nostra anima, coscienza compresa. Virtualmente, saremmo immortali.
E allora, cosa ci sarebbe di più efficace, che dotare l’intelligenza artificiale della nostra abitazione di una copia della nostra anima? Chi meglio di questa copia sarebbe in grado di provvedere istintivamente ai nostri bisogni?
Oona Chaplin interpreta una donna ricca che si fa innestare nella corteccia cerebrale una sorta di hardware in grado di copiare, in una settimana, la nostra impronta mentale.
E alle domande inevitabili, se la copia debba essere considerata, a tutti gli effetti, un essere vivente in quanto autocosciente, be’, la risposta è emblematica, e più che realistica: who cares? Chi se ne fotte?

Questa è la bellezza di Black Mirror, la credibilità di dibattiti che troverebbero spazio e passione solo sulle bacheche di facebook, in mano a moralisti della domenica.

Ma la questione dell’anima è solo un racconto nel racconto.
Come l’altro, quello che mostra un ragazzo insicuro intento a rimorchiare ragazze a una festa aziendale, assistito in tempo reale, tramite un qualche impianto sempre messo nella corteccia cerebrale, da un team di esperti collaboratori che coadiuvano le performance di approccio fino all’accoppiamento, con possibilità di assistere da spettatori anche a quest’ultimo. Un’alienazione galoppante che ci vuole più a nostro agio a comunicare, a condividere l’esistenza con gente incorporea, assente, più che con un altro organismo, presente e reale.

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Ma la parte più interessante, come dicevo, è la cornice, che è anche il terzo e ultimo mini-racconto: la confessione.
L’idea alla base è che in una società prossima futura, interconnessa, prevalga nel mondo reale la logica del social network, dove i regolamenti alla base di quest’ultimo divengano possibilità reale e codice comportamentale, con tanto di funzioni applicabili, tramite la volontaria installazione di speciali lenti che vanno a sostituire le nostre cornee, che ci consentono di sfruttare i nostri organi di senso come fotocamere e persino, qualora ce ne fosse la necessità, di bloccare un altro utente o, nel caso specifico, un altro essere umano.
Come si fa a bloccare un essere umano?
Semplice: cancellando l’immagine di quest’ultimo dal proprio campo visivo. La sagoma oscurata che prenderà il suo posto diventerà tutto ciò che dell’altro indesiderato, d’ora in poi, potremo percepire.

Ma andiamo anche oltre, ché come i social network sono gestiti da autorità sconosciute che possono talvolta far pesare il loro ruolo, la condanna al blocco viene, in questo futuro, imposta come misura punitiva, a seconda dell’entità del crimine.
Pensateci, cosa c’è di peggio che essere esclusi dal resto del mondo?
Percepire il resto della gente, in un mondo così densamente popolato, come una torma di sagome scure, delle quali siamo impossibilitati a udire persino le voci?

Cosa c’è, oggi, di più naturale del blocco? Di più assoluto, dittatoriale? Escludere dal proprio mondo, con un clic o aggiornando una lista di soggetti sensibili, un altro essere umano? O per lo meno la sua proiezione informatica…
Certo, di sistemi per aggirare il blocco ce ne sono a dozzine. Ma non è questo il punto, piuttosto è l’analisi, la possibilità concreta che il futuro divenga sempre più simile a quello che per ora è solo un territorio virtuale, pur così vivido e pulsante nelle nostre vite, imprescindibile.

Black Mirror è l’attenzione al nostro cambiamento costante, non fa altro che sussurrarci dove stiamo andando a finire.

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Episodi precedenti QUI

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  • Quanfdo gaurdo Black Mirror mi assale sempre un senso di inquietudine profondo: perché quando vedi le astronavi, gli alieni, gli androidi cattivi e tutte quelle cose spaziali ti dici sempre: “vabbè, figurati, morirò prima di vedere tutto questo”, e invece in Black Mirror sono un futuro che non è proprio domani, ma dopodomani sì.
    E, ancora più inquietante, nessuno fermerà questo processo di alienazione dalla realtà, nessuno: è già radicato, è già avviato da anni, e Orwell non era uno scrittore, era John Titor.

    • Sì perché è stato subdolo e costante, e non ce ne siamo accorti, o non gli abbiamo dato il giusto peso…