Probabilmente, la serie televisiva migliore degli ultimi dieci anni.
Black Mirror torna con la seconda stagione (la prima la trovate QUI e QUI), tre nuovi episodi che analizzano, con sfumature distopiche, il nostro rapporto simbiotico con la tecnologia e i mezzi di comunicazione.
Ideata, prodotta e trasmessa da Charlie Brooker per la Endemol, Black Mirror, lo ricordo brevemente, è lo specchio oscuro, rappresenta gli effetti collaterali, i side effects, quelle conseguenze nascoste che l’utilizzo di ogni fattore esterno comporta sul nostro fisico, sulla nostra mente, che sia esso un farmaco o, come in questo caso, il progresso scientifico che, ineluttabilmente, segna le nostre vite sotto molteplici aspetti.
Proiettata verso il futuro, la serie mette in scena la quotidianità di personaggi diversi. Familiarità, dunque, non troppo distante, nello scarto tecnologico, dal presente. Potrei azzardare che tra la realtà rappresentata in Black Mirror e la nostra ci siano appena cinque, dieci anni di scarto.
E lì che stiamo andando, è lì, dall’altra parte dello specchio, che questa serie ci conduce: non è un monito, ma una presa di coscienza. Ci viene mostrato, in queste storie, come diventerà la nostra vita, che ci piaccia o meno.
Ragion per cui forte è il senso di meraviglia che Black Mirror produce e, com’è stato per la prima stagione, affermo che per noi che in internet ci viviamo, non è che una conferma di certi percorsi, certe mete che da anni ci vengono suggerite, che intuiamo da soli.
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[contiene anticipazioni]
Be right back è il primo episodio, scritto da Charlie Brooker, per la regia di Owen Harris. Protagonista è Hayley Atwell, una delle mie preferite. È lei, unita al tema trattato, a rendere questa puntata eterna. In Be right back ci sono tutte le mie ossessioni narrative tranne una. In pratica, la storia perfetta. E, in aggiunta, un inedito taglio al femminile, visto che la protagonista è una donna che si trova a pensare (e fare) azioni che, compiute da un uomo, avrebbero avuto il solito profumo feticista. Prospettiva inedita, quindi, apprezzabilissima.
Be right back è la paura che è dentro ognuno di noi, quella di salutare un nostro congiunto, che si allontana per svolgere un compito qualunque, ordinario, e non fa mai più ritorno, perché nel frattempo gli è capitato qualcosa.
A scomparire è il compagno di Martha (Hayley Atwell), Ash.
Martha si occupa di grafica, disegna copertine per riviste digitali, lo fa su un piano da lavoro, il cui foglio interattivo le consente di disegnare meglio che dal vivo. Nessuna meraviglia, molti disegnatori professionisti, nella nostra realtà, lavorano già su dispositivi molto simili.
Martha possiede uno smartphone sottilissimo, un notebook che è anche tablet ed è iscritta a tutti i noti social network: facebook, twitter, g+ e via dicendo. Lo era anche Ash. In rete, volendo, è possibile trovare tracce dell’intera esistenza di Ash, che come d’abitudine, condivideva la sua vita online, tramite chat, foto, conversazioni via skype.
Un’amica di Martha, per consolarla della perdita, la iscrive a una nuova applicazione sperimentale: un programma automatico che, una volta avuto accesso a tutte le informazioni reperibili online, riprodurrà Ash, un Ash virtuale in grado di interagire via chat con Martha, imitando il più fedelmente possibile la personalità del defunto.
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Tempo fa lessi un articolo su una rivista specializzata. Sono passati troppi anni e non ricordo molto altro, scusate, ma ricordo che c’era un’interessante considerazione sull’anima umana: l’anima, o la nostra personalità, se volete, quindi i nostri dubbi, desideri, paure, speranze, fobie, fissazioni, tutto è contenuto nel nostro cervello, e altro non è che una serie di impulsi elettrici e di legami fra le nostre cellule, i neuroni.
La possibilità, ai limiti della fantascienza è la seguente: ammettendo di poter copiare il nostro cervello, sotto forma di dati traducibili da un computer, copieremmo, alla fine, la nostra anima, la nostra coscienza. Diverremmo, di fatto, immortali, perché trascenderemmo la nostra sostanza fisica, il nostro vincolo mortale, che è il corpo, e trasleremmo noi stessi in un supporto più duraturo e facilmente rimpiazzabile che, volendo, potrebbe essere trasferito, ancora una volta, in un supporto esterno, un nuovo corpo, per poter di nuovo interagire col mondo esterno.
Ebbene, tutto ciò è contenuto in Be right back. L’intelligenza artificiale che imita Ash ne riproduce la voce, desunta da documenti audio-video, le piccole manie, è inoltre in grado di apprendere per migliorare la propria simulazione, per diventare più umano dell’umano.
Martha si abbandona completamente, e volontariamente, all’inganno, sprofondando persino nell’Uncanny Valley, quel perturbante che l’assale nei momenti d’intimità, quando s’avvede che il nuovo Ash è una creatura artificiale che, nonostante l’altissimo grado di perfezione, non riesce a incarnare l’unicità dell’essere umano.
Ma la vera domanda resta sempre la stessa, per quanto ancora non ci riuscirà?
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E il pensiero va alla nostra vita quotidiana, fatta di chat e messaggi su internet che, se scritti con sincerità e spontaneità, altro non sono che tracce di noi. Va alla robotica e al tentativo di imitare l’essere umano.
All’importanza che attribuiamo alla rete globale, alla condivisione delle nostre esperienze, dei nostri stati d’animo, a quanto ciò sia percepito da molti di noi, me compreso, come ormai irrinunciabile.
L’evoluzione è inarrestabile, e questa muterà le nostre vite. Anzi, lo sta già facendo, se guardiamo indietro a dieci, quindici anni fa.
Siamo già nello specchio oscuro, le polemiche su internet ne sono prova lampante. Stiamo faticosamente adattando la nostra essenza a una realtà che ci permette di essere universali e presenti ovunque, in qualunque momento, anche a noi stessi, perché diversamente dalla nostra memoria, la memoria di internet è eterna (almeno in linea teorica).
E come dicevo all’inizio, è un fenomeno che prescinde il giudizio del singolo, i rimorsi di coscienza, il rigurgito luddista: sta già avvenendo.
E noi ci siamo dentro.
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