Underground

Bandersnatch di Black Mirror, interattivo ma non troppo

Se avete frequentato questo posto nel corso degli anni, sapete allora che sono stato uno dei primi estimatori di Black Mirror.
L’ho sempre difeso, anche dopo il passaggio a Netflix, persino dopo San Junipero, che secondo me è stato male interpretato dalla maggior parte.
Estimatore di Charlie Brooker e del suo lavoro, oltre che delle sue idee.
Così, naturalmente, ho visto Bandersnatch, il “rivoluzionario” episodio “interattivo” che ha finalmente fuso la narrazione a bivi, tipica dei librogame, con l’intrattenimento televisivo, da praticare rigorosamente sulle smart TV.

Cos’è Bandersnatch? Prima di tutto, prendo in prestito un pezzo di testo del mio amico Mauro, circa l’affascinante definizione del titolo:

Il Bandersnatch, tradotto ad esempio “Grafobrancio”, è una creatura surreale ideata da Lewis Carroll nella poesia sul Jabberwocky (Alice dietro lo specchio) e in La Caccia allo Snarl. Il nome nasce proprio come gioco lessicale e nonsense, proprio come quello del più noto Jabberwocky, che viene ad esempio tradotto come Ciarlestrone, Tartaglione, Cianciaroccio, Mascellodonte, Giabervocco, Lanciavicchio e Brillalovo.

Questo per prestare l’occhio attento all’etimologia.
Nella narrazione blackmirroriana Bandersnatch è un libro rivoluzionario, che presenta una narrazione a bivi, e anche piuttosto malfamato, perché sembra sia costato al suo autore la salute mentale.
Un ragazzo introverso e problematico, Stefan, agli albori dell’era miliardaria dei videogiochi, il 1984, decide di tradurre quel testo così strano in un videogioco per Personal Computer. Si reca così, con sottobraccio la sua demo, dal proprietario di una rampante ditta di videogame, che ricorda molto l’Atari, per velocità di ascesa, eccentricità di chi ci lavora, e rapidità – eventuale – di caduta, e ottiene l’incarico.

Bandersnatch offre svolte apparentemente insignificanti, del tipo scegliere quale marca di cereali mangiare a colazione, o quale musica fare ascoltare al ragazzo mentre è in autobus per andare a presentare la demo del suo gioco, e altre più incisive: tipo se produrre il gioco nella sede della ditta, con l’ausilio di un’intera squadra di assistenti, oppure se lavorarci a casa in solitaria.
Promette di offrire punti di svolta a ogni piccolo bivio. Mette in scena, a mio avviso, la perfetta illusorietà del libero arbitrio, applicata alla narrazione.

Il discorso è vecchio, più vecchio degli stessi librogame.
Ma per me la cosa ha assunto il suo peso solo negli anni Novanta: mi ero messo in testa di partecipare a un concorso letterario, in palio, l’inclusione in un’antologia di racconti dedicata a X-Files.
Mio cugino, che coabitava col sottoscritto a Bari per l’università, mi disse che per essere scelto e comparire nell’antologia, avrei dovuto proporre qualcosa di mai visto prima: offrire una narrazione a bivi, con almeno tre finali differenti.
Chissà se l’avessi ascoltato…
Ma non lo ascoltai, e comunque il racconto che scrissi era una vera merda, per cui…

Però, Bandersnatch ha subito rievocato quel ricordo: l’esigenza da parte del fruitore di opere di sentirsi parte attiva, per quanto possibile, nella realizzazione dell’opera stessa.
Che sa un po’ di arroganza e consolazione.

Ché, per quanto riguarda Bandersnatch, sempre di opera scritta si tratta. E, se non ci facciamo ingannare dal miraggio delle centinaia di migliaia di combinazioni possibili e dalla volontà (simile alla smania di collezionismo) di provarle tutte, vediamo bene lo scarso impatto, quasi nullo, di certe scelte che ci vengono offerte.
Come, ad esempio, quella se accettare o meno il francobollo di LSD.
Se lo accettiamo, Stefan si droga.
Se lo rifiutiamo, il suo amichetto programmatore eccentrico e ossigenato Colin glielo mette nel drink di nascosto, e lo fa drogare lo stesso.

Tutte scelte che portano a una manciata di finali (di cui dicono uno nascosto), tutti pessimisti, in ciò aderendo fin troppo all’idea che Black Mirror debba essere una serie d’agonie, intrinsecamente votata al pessimismo cosmico.
Ecco, comincio a trovare questa “aderenza a tutti i costi al tema” un po’ rintronata, qualcosa che riproduce, nella sua testardaggine d’attuazione, una San Francisco digitale, dove, per non rinunciare alla pianta a scacchiera, si sono create delle salite che pure se sei in auto, devi usare i rampini, per arrivare dall’altra parte della strada.

Alla fine, Bandersnatch è un esperimento intrigante, strutturato su una storiella senza troppe pretese, coi soliti occhieggiamenti agli anni Ottanta, che tanto titillano i miei coetanei e che, forse, incuriosiscono i più giovani, ansiosi di esplorare il “passato” (scusate, ma per me gli anni Ottanta sono ancora ieri, non riesco a considerarli più che passato prossimo).

Però, siccome c’è sempre il buon Brooker, dietro BM, m’è venuta in mente un’idea stramba, che vado a esporvi.
Durante Bandersnatch viene mostrato più volte questo simbolo:

Dicono sia il simbolo del bivio, e di tutto l’eterno ritorno della scelta che questo comporta.
Non è la prima volta che lo vediamo.
Esso è apparso, sempre in Black Mirror, nell’episodio intitolato White Bear, nella seconda stagione (quando la serie era ancora buona e bella e non edulcorata da quei cattivoni capitalisti di Netflix).
In White Bear c’era uno show televisivo piuttosto cruento, in cui i criminali venivano condannati a essere perseguitati dalle loro vittime o dalla gente comune, il tutto in diretta TV, fino alla morte. Se per caso sopravvivevano, allora gli veniva cancellata la memoria e si ricominciava lo show, in un eterno ritorno.
Trovo estremamente interessante che il nostro Stefan di Bandersnatch, proprio quando lamenta la mancanza di libero arbitrio, prenda coscienza di questo simbolo, che gli compare addirittura sullo schermo, mentre lavora al videogame.

È un finale anche questo? Brooker ci vuole forse dire che Stefan, in quanto assassino, è finito in realtà in quell’orrido reality show per criminali ed è costretto a ripetere in eterno la punizione che altri (noi) abbiamo scritto per lui?
Forse.
O forse è solo una citazione per nerd.

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