L'Attico

Sull’editing e l’arte

L’editing è il mio mestiere da circa tre anni.
Porta tanti o pochi soldi. A seconda di come gira. È un’impresa ogni volta.
È ansia e poche certezze.
Perché si commettono errori, non si vedono i refusi, non si dà il suggerimento giusto.
È un lavoro dietro le quinte.
E gli errori vengono bilanciati dai buoni consigli, che poi portano recensioni positive a questo o a quell’autore.
E un mestiere che io trovo bellissimo.

E ci si potrebbe fermare qui.
Solo che, ancora, spesso a dire il vero, sento gente dire che l’editor fa tutto o niente.

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Un editor fa tutto:
– ovvero prende in mano un testo osceno (che tanto lo scrittore non deve ormai nemmeno conoscere la grammatica, la sintassi o l’interpunzione, deve solo vomitare parole, spesso inventate anche queste) e gli conferisce forma umana; ovvero una forma universalmente compresa dalla specie umana.
E magari lo rende anche avvincente.

Un editor fa niente:
– fa tutto lo scrittore. Lo scrittore fa arte. L’editor è solo un fastidio imposto dalla casa editrice. Tutt’al più corregge i refusi e aggiunge qualche virgola (spesso accazzo).

Queste sono le versioni che vanno per la maggiore, riguardo la mia professione.
La terza è un imbarazzante: Cos’è l’editing?

Non è un paese per editor.
Ma parliamone.

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Entrambi i miti di cui sopra, volendo escludere il terzo, sono veri e falsi.
L’editor di Schroedinger.
Utile e inutile allo stesso tempo.

L’editor è un professionista, e spesso non ha tempo da perdere.
Si suppone quindi che debba lavorare con gente che conosce la lingua nella quale pretende di scrivere.
Questa sarebbe la base ideale da cui partire.

Ecco, l’editor, o il mestiere dell’editor, è la ripulitura, in termini prettamente concreti, o la cesellatura, se siete romantici.
Si tratta di prendere un testo e privarlo delle impurità.
Lo scrittore scrive. L’editor passa l’aspirapolvere.
Ma non è solo questo.

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Ho anche letto da qualche parte che quella dell’editing è un’arte discreta.
E qui entriamo in un campo minato.

Perché, siccome l’arte ce la siamo inventata (il concetto di arte), l’editing è, o potrebbe essere, arbitrario o aleatorio allo stesso tempo.
Indeterminazione.
Non se ne esce.

In verità, l’editing è tutto questo.
È una strana contaminazione.
È un insieme, più o meno rigido, di regole (che vanno prese né più né meno come un set di utensili: si possono usare tutti, ma non è obbligatorio farlo), spessso concordate con l’editore, il quale può decidere di privilegiare il PdV in terza persona limitata e di punire i salti, oppure può lasciare briglia sciolta.

Ed è, allo stesso tempo, immedesimazione.
L’editor è, in questo senso, rappresentante non eletto del popolo dei lettori. Perché, dopotutto, è un lettore egli stesso, in primis.
La sua responsabilità è leggere il testo per la prima volta e sollevare i dubbi del lettore esigente, e su tali dubbi discutere con l’autore e trovare un compromesso, spesso teso a migliorare il risultato finale il più possibile.

L’editing è anche intuizione. Perché non c’è una regola, un utensile o un manuale che possa garantire il risultato di pubblico, che una scena sarà gradita o odiata, che un testo funzionerà con un ritmo più contratto o, al contrario, più sciolto. Non c’è il segreto per un buon editing.
Tutti voi, che magari volete fare questo mestiere, vorreste che ci fosse: le dieci regole per essere un buon editor.

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E magari, dieci consigli (che non sono regole), esistono e funzionano.
Di sicuro c’è chi ve le dispensa con somma saggezza.

Ma c’è sempre quella variabile x, incontrollabile e imprevedibile. Ed è lì che l’intuizione dell’editor interviene. È quel momento in cui decidi che un personaggio deve avere nell’ufficio un vassoio di bacche caccia-streghe, o deve rispondere come fosse Humphrey Bogart in Casablanca, o mangiare una certa pizza anziché un’anonima margherita. È l’intuizione che ti suggerisce che certe cose non vanno spiegate, ma lasciate all’intelligenza del lettore.
E, se l’arte si basa sull’intuizione, allora l’editing è, anche, arte.
L’arte di mettere una macchia sulla cravatta del protagonista.
È solo una macchia, ma, da sola, esprime molta più personalità di due interi capitoli di descrizioni noiosissime.

È un’arte muta. Che si estrinseca anche nel rimangiarsi le proprie obiezioni, quando l’autore ti convince che il tuo consiglio è… una cazzata.
Capita anche questo. È normale. Fa crescere. Anzi, sono i momenti in cui si cresce di più.

E, in definitiva, migliore è l’editing, meno si nota. Perché l’obiettivo ultimo dell’editor è essere un fantasma, per il lettore.
Quest’ultimo deve leggere e pensare solo alla storia. Se si sofferma sul testo, più che sulla storia, allora l’editor ha fallito. O avrebbe potuto fare meglio.

Di editing si parla tanto, oggi. Spesso a sproposito. Voi che ne pensate?

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(Ah, poi c’è la storia che l’editor è un mediocre scrittore. Uno che ha fallito e ha ripiegato…
Be’, su questa ci ritorniamo, dato che io sono entrambe le cose.)

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