L'Attico

L’aria del lavapiatti

state of mind

[…] Bussai.
Aprì un tipino alto snello delicato che spandeva odore di senso artistico tutto intorno. Si capiva che era nato per Creare, per Creare cose grandiose, libero da ogni impedimento, mai angustiato da coserelle meschine come mal di denti, incertezza, sfiga. Era uno di quelli che hanno l’aria di un genio. Io avevo l’aria di un lavapiatti per cui i tipi come lui mi stavano sempre un po’ sui coglioni.

Stamattina, a tenermi compagnia, ancora il vecchio Hank.
Ogni volta che mi domando come si sia giunti al punto in cui siamo, arriva Hank a dirmi che le cose erano uguali anche per lui *.

Come lui, ho l’aria del lavapiatti. Non da l’altro ieri. Più o meno da sempre.
Mi alzo, guardo allo specchio l’altro me stesso, e giudico che pure lui ha l’aria del lavapiatti.
Anche mio padre l’aveva. Intere generazioni di aventi l’aspetto di un lavapiatti.
Ecco, in due parole: il destino.

Lavapiatti, quindi, circondati da gente che al contrario si dà un tono. Soprattutto online, dove non si sente la puzza, non si vede la forfora, né s’avverte l’alito cattivo.
Cazzo, è davvero facile darsi un tono.
M’invento editore spaccaculi e mi vesto di figaggine. Siamo il nuovo, siamo l’avvento, siamo il delfino della carta! Cioè, il destino… Siamo li mejo.

Se se…

Qualche giorno fa ho trovato questa foto, che è diventata il mio avatar: unisce il nerd al professionale, nevvero?
Qualche giorno fa ho trovato questa foto, che è diventata il mio avatar: unisce il nerd al professionale, nevvero?

Oppure faccio il blogger che odia se stesso. Ho un blog, ma siccome sono troppo bravo allora mi odio e ciarlo da mane a sera contro i miei colleghi, perché rei al contrario di divertirsi, e lancio loro invettive gratuite e frecciatine simpatiche come spine di fico d’india sotto le ascelle.
E mi meraviglio sdegnato poi che quelli, inviperiti, mi mandino a raccogliere ricci di mare nell’acqua gelida piegato a novanta gradi.

Sorpassata la pretesa di “fare arte”, che era una roba buona negli anni Settanta, ora la gente che mi circonda (be’, la maggior parte, almeno) è ossessionata dall’avere un’aria professionale, pulita, efficiente. Possibilmente un po’ controcorrente, perché si sa, il mainstream è dei poveracci, appartiene a quelli a cui piace Pacific Rim (che a me… piace. E pure assai).
Gente che non usa mai il turpiloquio.
Adotta la diplomazia e il boicottaggio.
Si mostra perfettamente sicura e padrona di sé.
Non scoreggia.
E se lo fa, non annusa.

Ecco, state storcendo il naso, già vi vedo, perché scrivo volgarità. Ho urtato il vostro profondo senso estetico, e anche quello dell’olfatto, evocando odori malsani.
Consideratemi alla stregua di Christian De Sica in Fratelli d’Italia.
A’ Bambolì… (cit.)

E trasmissioni come quel talent show letterario innominabile sono esempio di un problema molto più radicale.
In un mondo in cui tutto è immagine, si vende l’immagine del prodotto, più che il prodotto stesso.
Ok, si sa, non ho scoperto nulla.

Però… ora mi sembra che la precedente non sia più una regola del marketing, ma uno stile di vita. L’unico socialmente accettabile.
Per cui lo scrittore deve sembrare scrittore, prima di saper scrivere. E anche se non sa scrivere, ci sono i Santissimi Editor (che tra poco li ridurranno a santini da distribuire all’ingresso delle case editrici, chiedendo in cambio un’offerta e di accendere un cero) armati di grammatica e sintassi.
Se fai il grafico, devi sembrare un grafico.
Se fai il cantante, devi sembrare un adolescente sbarbato anche a quarantacinque anni. Se fai la cantante, al contrario, devi zoccoleggiare in giro con la scusa che sei libera e nessuno ti può giudicare, nemmeno tu.
Se fai il dio del tuono, devi al contrario sembrare Loki.
Se fai il blogger devi sembrare…

bah

Un momento, come dovrebbe essere un blogger?

Giacca e cravatta, che si dà le arie di chi sa tutto e confuta tutto semplicemente perché può/è chic?

Oppure anarchico insurrezionalista nascosto nella cantina tra pagine polverose di manuali di programmazione, alla caccia dello scoop da sbattere online per la disperazione dei potenti, magari anche un po’ nerd nell’aspetto: occhialoni d’osso dalla montatura scura, camicia a quadrettoni?

Oppure ancora avere l’aria sbarazzina dello sbarbatello che discerne di cinema, ma gli riesce solo di parlarne male, mai che gli piaccia un film neanche a inginocchiarsi a testa in giù recitando il rosario?

O la beata/il beato che ce l’ha solo lei, aria stronzeggiante, che vaneggia di letteratura e/o moda e caffetterie aromatiche dove bere caffè cagato dallo zibetto e annusare libri intellettuali che nessuno leggerà?

Oppure altro?

E soprattutto, è giusto aderire all’immagine che il pubblico ha di te, della tua categoria? Esistono categorie?
Funziona davvero atteggiarsi?

Oh, io penso di sì. Cazzo, se funziona! Funziona eccome!

E magari potrei pure fare un tentativo di cambiare, di mascherarmi, d’illuminarmi d’immenso.
Solo che, ho l’aria del lavapiatti. Per cui, sotto il costume, si vedrebbe sempre il grembiule sporco di olio e sapone sgrassante. E la mia arma è la retina saponata. Sarebbe tutto inutile. Per cui sono anche un po’ incazzato.
E mi sa che me ne torno in cucina.

A dopo **.
Musica…

* Parliamo di Charles Bukowski e di Hollywood, Hollywood (1989)
** Non sforzatevi di riconoscere gente reale, nelle mie parole. È un discorso generalista, si parla di tipi e stereotipi.

Kick-ass writer, terrific editor, short-tempered human being. Please, DO hesitate to contact me by phone.
  • […] Mai confidare nei ricordi, quindi. Mai considerare una qualunque disciplina come andare in bicicletta, perché si finisce, alla prova dei fatti, col fare la figura del fesso; arrogante, per di più, se per caso spacciate il vostro lavoro convinti di aver fatto una cosa grandiosa. Meno male poi che ci sono gli amici, quelli veri, che ti dicono che, se proprio hai un’aria particolare, non è certo quella dell’artista, ma del lavapiatti. E, lo sapete, io per i lavapiatti ho un debole. […]

  • Della questione di abiti e monaci se ne discuta dalla notte dei tempi. Il problema è che in questi ultimi tempi sembra che tu abbia avuto un accelerazione, nel mio ramo l’ apparire conta molto più dell’ essere ma, e cqui c’è un ma, quando arrivi al dunque vedi uscire fuori le differenze.
    Perchè come dice il film “quando il gioco si fa’ duro…” e allora lì esce fuori quello che è capace e quello che non è bravo, anche se è bello e figo, rimane al palo.
    Capita ogni tanto, ma quando capita son soddisfazioni…

    • Eh, è raro… e finché resta una rarità è come se non succedesse affatto. Capisci che intendo? Il grande pubblico è impressionato dalle lucette sul palcoscenico.
      È la storia del cesso, ma a più ampio raggio. investe ogni campo del sociale, ogni categoria. Per uno smascherato ce ne sono milioni che continuano a atteggiarsi. E miliardi che si lasciano ingannare.

      • Vero. 😀

      • come l’ argomento del mio post di oggi…sincronicità

  • Era il 1994 quando mi resi conto che, per l’università nella quale studiavo e – teoricamente – stavo per laurearmi, era più importante la giacca della preparazione accademica. Più il look che la competenza.
    Non mi laureai – il mio lavoro venne passato a uno che aveva il look giusto, la giacca di velluto per l’aula e la camicia a scacchi per il terreno, uno che “sapeva vendersi”.
    Da allora ho avuto infinite conferme del fatto che, se non ho l’aria del lavapiatti, ho per lo meno quella del rude meccanico, e questo mi penalizza – “potrai anche fare delle buone conferenze, ma il posto te lo devo trovare io, perché sono bello e piaccio alle donne”
    Non scherzo, me lo son sentito dire sul serio.
    Ed è curioso, perché ho scoperto che capita solo in Italia.
    Fuori dal nostro bel paese, valutano quel che sono, non quel che sembro – forse perchè hanno categorie classificative diverse.
    Forse perché son meno stronzi.
    O chissà, sarà la lingua.

    • Il fatto di “sapersi vendere” è stato ripetuto anche a me, fino alla nausea, ed è una caratteristica che ci rende un po’ puttane.
      Ma in fin dei conti riassumiamo con queste frasi ciò che è una mancanza sociale: il pubblico, che poi è quello a cui ci si dovrebbe vendere, diffida e non ha la minima curiosità di conoscere l’altro.
      E quindi ci trucchiamo.
      Ma non basta, si deve anche saper starnazzare. E bene, con la giusta dose di aggressività, in modo da darsi un’importanza solo figurata.
      E finché si arriva alla prova dei fatti, quando si deve dimostrare, possono passare anni. Anni di recita.
      Quando mi laureai io il relatore mi rimproverò, perché in aula avevo l’aria scazzata, di quello che non se ne fregava nulla.
      Invece dovevo recitare la parte dello studente adorante che ha visto la luce.

      • E dici che funziona così solo in Italia?
        Sì, a quanto sembra, dalle storie che sento sull’estero. Che sembra un altro pianeta. O forse l’altro pianeta siamo noi.

      • Riporto un brano di dialogo nel quale sono stato coinvolto pochi mesi addietro…
        C’era un’opportunità per fare delle consuleze,
        “Ma tu sei in ghrado di spacciartela, se ti presento come esperto?”
        “Io sono un esperto sull’argomento.”
        “Non mi interessa, a me interessa se sai spacciartela.”
        È avvilente.
        È mortalmente avvilente.
        E nel caso, no, non se n’è fatto nulla – l’opportunità sarà stata offerta a qualcuno che sapeva spacciarsela, anche se esperto sull’argomento non era.
        Coi risultati che conosciamo – un progressivo, inesorabile decadimento della qualità a favore del bla bla bla.