L'Attico

La meccanica dell’intrattenimento

Jonathan Blow
Jonathan Blow

La premessa.
C’è questo docu-film interessante, Indie Game, che segue, tra gli altri, un frammento della vita di Jonathan Blow, creatore di Braid, videogioco indipendente di grande successo.
Si dice che il settore dei videogiochi indipendenti sia uno degli ultimi settori in cui un autore possa cimentarsi con profitto nella creazione della propria opera e vedere i frutti del proprio lavoro riconosciuti.
In breve, ci si può arricchire, creando videogiochi, e allo stesso tempo ci si può anche vantare di essere autori.
Creatori di mondi.

E poi ci sono film come i cine-comics, Suicide Squad, tanto per citare l’ultimo in ordine di tempo.
Film, quindi prodotti d’ingegno, che, secondo una tendenza molto radicata nell’epoca attuale, annichiliscono volontariamente la figura dell’autore (il regista/sceneggiatore, in questo caso) in luogo di una gestione meccanica del prodotto di intrattenimento.
Sì, si fanno bei soldi anche lì.

Tornando agli Indie Game, c’è questo momento preciso in cui Blow parla del significato insito in Braid, che, a suo dire, vanta un contenuto quasi filosofico, rispecchiato perfettamente dall’ambientazione del videogioco, quasi lirico-surreale, in certi frangenti.
La lotta del protagonista nel salvare la principessa (sì, un classico) s’accompagna a una sorta di ricostruzione di sé e delle proprie motivazioni.
Da buon autore, Blow ha impregnato il suo videogioco di un significato latente, di un messaggio.

Un'immagine evocativa da Braid
Un’immagine evocativa da Braid

E c’è, poi, quest’altra sequenza, in cui il videogioco, Braid, è mostrato nelle mani dell’utente finale, l’acquirente. Il giocatore.
Colui che ha tirato fuori moneta frusciante e l’ha comprato. L’ha montato e ci gioca.
Perfetto. Fa tutto parte del piano.
Giocatore che, vuoi per cultura personale, sensibilità, scazzo, il fortissimo contenuto autoriale presente in Braid lo traduce così:

– c’è questo ometto (il protagonista del gioco, ndr), vestito come un impiegato delle poste
– deve saltare da un posto all’altro come Super Mario
– e, oh sì, ha la capacità di mandare indietro il tempo e di fare altre stronzate
– insomma, è una cazzata divertente

Ecco, più che le vite stressate dei protagonisti di Indie Game, in certi casi troppo stressate, perennemente in bilico tra successo e soldoni e fallimento totale, è questo passaggio che mi ha lasciato perplesso.
È il rapporto tra autore e fruitore.
Il secondo può essere, di volta in volta, giocatore, spettatore, lettore.
Insomma, il destinatario ultimo della vostra opera.

Nel caso di cui sopra, il giocatore non stava muovendo una critica a Braid, anzi, ne era entusiasta.
Ma di tutto il messaggio simbolico, il sentire dell’autore, che personalmente aveva disegnato ogni livello e sfondo del gioco, di volta in volta richiamando precisi stati d’animo, non era sopravvissuta la minima traccia.

La storia del cesso. Rotto.
La storia del cesso. Rotto.

Nella compravendita, il gioco era diventato una cazzata divertente. Non si sa bene nemmeno perché, forse per il semplice fatto che, diversamente dai videogiochi classici, d’epoca, la possibilità di negare la morte del personaggio andando indietro nel tempo e ripercorrendo le stesse azioni, lungi dall’essere assimilabile a un processo kafkiano di ricostruzione dell’io (come sostiene sempre l’autore), per il consumatore ultimo diventa, per l’appunto, una cazzata.
Però divertente.

Mi sono sempre chiesto dove cominci l’arbitrarietà dell’arte e dove finisca.
E l’impressione generale, a una visione semplice, è che ogni giudizio estetico, quand’anche si richiami a pregressi studi e a un sostrato culturale più o meno ampio, sia inevitabilmente arbitrario. Fondato sull’impressione.

Non c’è niente di oggettivo nell’interpretazione di un’opera. E, per paradosso, l’osservazione colta ha medesimo valore di quella scazzata del villico che casualmente viene in contatto con la medesima.

In parole povere, l’arte cessa di essere tale quando la percezione di essa scompare.
Mi sovviene la famosa storia del cesso scassato.

Nel tremila e rotti, quando gli archeologi del futuro studieranno le vestigia del nostro presente e si imbatteranno nella statua di un cesso rotto, non la considereranno un’opera d’arte, come se si trovassero di fronte ai resti del David di Michelangelo, ma un semplice cesso. Rotto, per di più. E lo lasceranno da parte, per nulla interessati.

Ma spesso, neanche la forma dell’arte riesce a garantire che l’opera in questione sia correttamente considerata.
Stiamo parlando di casi estremi. Eppure la teoria è che una qualsiasi opera abbia tanti significati quanti siano i suoi fruitori.
E non è una teria campata in aria.
Fa parte dello scorrere del tempo.
Quante volte ci lamentiamo di imbatterci in recensioni (su Amazon, ndr) di classici della letteratura massacrati da nuovi lettori apparentemente ignari di avere a che fare con capolavori del genere?

È l’opera che ha fallito il suo scopo?
Considerando che la sensibilità delle epoche cambia, e con essa i gusti e il gradimento. Cosa che vede spesso i grandi classici messi da parte in luogo di creazioni contemporanee, di più immediata comprensione e immedesimazione.
Manca la coscienza critica, lo so. In un mondo che percepisce il bagaglio storico-culturale sempre più come un inutile fardello.
In un mondo veloce che ci spinge a liquidare un prodotto di intrattenimento con un clic, dopo avergli prestato una decina di secondi, se pure, di attenzione.

Tra parentesi, questi due attori mi piacciono un casino.
Tra parentesi, questi due attori mi piacciono un casino.

In un mondo, che, nel caso di Suicide Squad percepisce l’autore stesso come un fardello.
Per costruire un film, scrivere un libro, diventare #massimoesperto di orologi, per tutto c’è un manuale, non dicono così?
Quindi possiamo, in teoria, scritturare un cast, mettere in piedi due ore di film infiocchettarle con effetti digitali e lasciar sculettare una bionda, bellissima attrice e farle pronunciare battute insulse tutto il tempo, concupita da un altrettanto bravo attore con parrucca verde e denti di metallo.

E sarà un successo.

Da buoni autori continuiamo a infondere alle nostre creazioni i significati che amiamo, ma ci accorgiamo che i grossi media, di questa ingombrante presenza, ovvero l’autore, cominciano a farne a meno.
L’arte, così personale e arbitraria, è sostituita dalla meccanica. Dalla ricetta atta a creare o suscitare medesime emozioni, senza il fardello della personalità, che pretende di essere interpretata.
Il fruitore pare non debba farsi più domande, deve solo stare con gli occhi aperti quel numero di ore necessarie a giustificare il costo dell’esperienza.
Non deve soprattutto indignarsi, per ridurre a zero il rischio di una class-action verso i produttori dell’opera.
Deve solo stare quieto e artificialmente intrattenuto.
Felice.
Fino alla prossima volta.

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    • 7 anni ago

    Certo che “una cazzata divertente” è un commento da far cascare le palle.
    Ed è anche un deja-vu di qualcosa che mi è già capitato come autore.
    Non che i “creativi del fantastico” credano di essere chissà chi, ma comunque molti provano a produrre qualcosa che sia al contempo divertente e un minimo artistico, o profondo.
    Ma questo secondo aspetto viene percepito sempre più di rado.
    Perché, in effetti, manca del tutto il senso critico.

    • Io non so, il caso di Blow è sicuramente un estremo, dato che comunque, nonostante il gioco sia percepito come una cazzata, ci è diventato ricco.
      Però sì, è indubbio che vedere il frutto del proprio lavoro ridotto ai minimi termini è abbastanza fastidioso.
      Si spera sempre, sotto sotto, di incontrare un lettore sensibile che sappia valorizzare l’opera con la sua interpretazione… ma è difficile.