Quest’anno, su questo blog, è venuto fuori un Natale action. Cose che succedono. Che poi sono pochi a pensarci, al fatto che Die Hard (soprattutto) e Arma Letale, siano film natalizi. Anni Ottanta, squadra narcotici, i poliziotti erano fighi e cazzuti, tanto da permettersi di andare in giro in Ferrari.
Quella Testarossa di quel grandissimo gioco che fu Outrun. Solo che era bianca. E andavano di moda Miami e le giacche con le spalline. Ma questa è la storia di un duo, Martin Riggs e Roger Murtaugh. Diversi in tutto. Il primo pazzo e pericoloso, in realtà distrutto dalla morte della moglie, il secondo tranquillo, mai una cicatrice, mai un incidente sul lavoro, con una famiglia splendida e chiassosa.
Los Angeles e un angelo biondo e strafatto che si getta da un grattacielo. E sotto di lei, precipitata sul tetto di un’auto parcheggiata, compare il nome del regista di questa saga di quattro capitoli, Richard Donner. La musica, dirompente, è la solita natalizia.
Lo sapete anche voi, l’avete provata, l’angoscia che prende solo a Natale. Periodo magico. E sadico. Tutto il mondo è felice. Dice di esserlo e non sa perché. E, in fondo, che sia vero o no, non interessa a nessuno.
Qui siamo ancora agli albori, ma già i personaggi di Danny Glover e Mel Gibson sono scolpiti. Il primo invecchia, nel disperato tentativo di negarlo, per primo a sé stesso. Il secondo, l’Arma letale, cerca un sistema per crepare nel modo più veloce possibile. Ma gli riesce bene soltanto una cosa: ammazzare gli altri.
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Le solite scene che, viste una volta, da ragazzo, da bambino, non te le dimentichi più. Come Riggs che sta per montare in auto, salutando Roger, e gli dice che a diciannove anni, in Laos, ha ucciso un tizio a novecento metri di distanza, un colpo con vento forte. La memoria si innesca, e ripetiamo “Ecco, vedi… solo otto, dieci persone al mondo sono capaci di farlo”.
E ora ditemi, che se fosse qua la Zietta ce lo darebbe a tutti, il Maurizzio d’Oro, se adesso esistono personaggi così, che lasciano il segno.
Mel Gibson, sei anni prima, era quel Max che restava nel deserto, a guardare gli autobus coi sopravvissuti allontanarsi. Qui inizia le sue passeggiate a culo nudo, digrignando i denti e facendo il pazzo. Divertiva anche mio padre, nei duetti con Murtaugh, col secondo che gli domandava se avesse mai conosciuto qualcuno, senza ammazzarlo, e si stupiva a vedere il ghigno della sagoma-bersaglio, al poligono di tiro, ché Riggs l’aveva disegnato così.
Ancora non c’è Joe Pesci, presenza fissa e petulante, fino all’ultimo episodio. Ma c’è la famiglia di Roger che, nelle migliori tradizioni da soap opera, resta inalterata allo scorrere degli anni cinematografici. Quegli attori li abbiamo visti crescere, abbiamo visto la casa di Murtaugh crivellata di colpi di mitra, in questo film, da Gary Busey, mica un antagonista qualunque. Ma un immortale vero, nella vita vera.
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Busey è il Berretto Verde, come lo è Riggs, è il cattivo biondo (chissà perché, poi, erano tutti ariani, i cattivi negli anni ottanta), occhi azzurri e spietatezza allo stato puro. Il capo gli ordina di farsi bruciare il braccio e lui esegue, e quando gliel’ammazzano, il suo capo, invece di scappare via, va a casa del poliziotto nero, per fargli fuori tutta la famiglia. Insomma, uno di quei cattivi che ci piace amare, che rappresentavano l’unico altro modo in cui il male, se non dall’alto con lampi nucleari, poteva insinuarsi nella tranquilla vita borghese americana, fatta di case di legno, di papà risparmiatori e di famiglie corpose e casiniste, ovvero con la droga e la violenza. Guerre atomiche, squadre omicidi e narcotici. E l’action è servito.
Mel Gibson pazzo suicida, talmente bravo che Zeffirelli gli dà, dopo, il ruolo di Amleto. E quello sguardo folle, poi, gli è rimasto anche nelle commedie romantiche, che uno si aspetta di vederlo tirari fuori la Beretta 9mm Parabellum e iniziare a sforacchiare Helen Hunt, così per sbaglio.
Score di Michael Kamen che, inutile dirlo, resta dentro, col sax e quelle cadute inquietanti. Sempre di un poliziesco si tratta, infatti, ma il focus è fisso sugli attori. Solo i due protagonisti. A parte Busey, tutti gli altri, infatti, non interagiscono. Nessuna scena degna di nota, solo botte, sparatorie ed esplosioni, coi cattivi sempre un passo avanti agli sbirri, fino al sorpasso finale, sul filo di lana.
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Tra l’altro, a testimonianza che non si trattò solo di casualità, di personalità che ci lavoravano, ma di vera stagione creativa, c’era Bruce Willis, in lizza per diventare Riggs, solo che Bruce divenne McClane, che a sua volta doveva andare ad Arnold. Insomma, era quello il cinema. E noi stiamo qui, a ridere di tali scazzottate, a vedere Roger che impiega uno dei primi telefoni cellulari, con zainetto incorporato, e ci chiediamo il perché il cinema odierno debba essere afflitto da cattiva CGI, in primo luogo, visto che all’epoca le esplosioni erano vere, e costituivano passaggio obbligatorio per certi film, il pubblico le invocava, e, in secondo luogo, afflitto da moralismo sciatto, tipico di chi non è a posto con la propria coscienza e non sa come ammettere di stare facendo una stronzata dietro l’altra, attenti a non urtare la suscettibilità di nessuno, hai visto mai che ci fanno causa?
Ecco, Riggs era, a modo suo, personaggio oscuro, non cattivo, ma indifferente alla morte. Uccidere è un lavoro e, quando gli viene richiesto, non si tira mai indietro, restando capace, la stessa sera di andare a mangiarsi un hot dog e bersi una birra.
Adesso, l’eroe, ed è davvero difficile chiamarlo tale, deve essere fragile e buontempone, magari soggetto a una dominatrice, quella del falso empowering. E non ha le palle per prepararsi un proiettile a punta cava e vendicare col sangue la morte della propria moglie.
Insomma, questa era Arma letale. Ora andiamo in giro con la sicura e la pistola caricata a salve. Epoca di supereroi in costume. Enjoy, if you can.
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