La Stanza Bianca

Alien Covenant – Il Panorama dell’Esistenza

Alien (1979) è il mio film preferito (insieme a Blade Runner e due Carpenter che non sto qui a dirvi). Ne consegue che io a Ridley Scott gli voglio bene.
E non un bene generico. Gli voglio proprio bene, come a un papà. E ora che ha 79 anni, un po’ invidio questa forza che gli consente di girare una scena allucinante tipo quella dello xenomorfo che aggredisce Katherine Waterston sul tetto dell’astronave di recupero, con tanto di gru ballonzolante che sbilancia lo scafo e… tutto il resto. Insomma, dovete vederla.

Ma non sto qui a parlare di Alien Covenant in senso stretto. O di Alien. Anni fa l’ho recensito, quest’ultimo, quando ero ancora un poveretto che credeva di dispensare giustizia col suo minuscolo blog.
Poi s’invecchia e si arriva a capire il giusto tributo che bisogna assegnare a Ridley Scott.
È una questione di rispetto. Un’antica arte che, oggi, è perduta.

Comunque, guardavo Covenant e, dalle prime scene, rivedevo Alien. Quell’uccello giocattolo che beve acqua, forse in pochi l’hanno riconosciuto. È presente in entrambi. Così come le scritte digitali proiettate sul casco.
La cosa bella di Alien è che ha sempre parlato di esistenzialismo.
Per me l’esistenzialismo è una delle branche della filosofia più affascinanti. Spiegare le nostre origini rifiutando di considerarci un miscuglio casuale di molecole. Perché no?
E Alien era un horror spaziale che ci sussurrava esistenzialismo nelle parole di Ash:

Un perfetto organismo. La sua perfezione strutturale è pari solo alla sua ostilità. […] Ammiro la sua purezza. Un superstite; non offuscato da coscienza, rimorsi o illusioni di moralità.

E fa specie che le riflessioni sul significato della vita stessa vengano sempre formulate per bocca di un androide.
Ash, poi David/Walter.
A livello empirico, sembra altamente plausibile che chi voglia maggiormente misurarsi con la definizione stessa della vita sia una forma di vita che trascende il sistema riproduttivo, che sia creata e non generata. Ovvero gli androidi.
Che si suppone siano/saranno più perfetti, forti, longevi di noi poveri esseri biologici.
Sono loro che si interrogano sulla vita, sulla creazione, sono loro che, dall’alto della loro perfezione giudicano (e condannano) i loro padri. Probabilmente imputati di essere piccole creature imperfette. Meritevoli di cessare il loro arrancare nel tempo.

Ash rimane estasiato davanti  allo xenomorfo, a cui, benché creatura squisitamente biologica, riconosce uno stadio di perfezione al quale, con ogni probabilità, nemmeno lui è giunto, né potrà mai raggiungere.
Lo xenomorfo è la vita allo stato puro, irruente, selvaggia, lontana dalla morale. È puro istinto, né buono, né cattivo.

Stesso dicasi per David, che gioca a livello genetico per eliminare, coi suoi esemplari biologici, l’intelligenza e creare la creatura perfetta.

Insomma, sembra che nell’evoluzione, come nell’esistenza, l’autocoscienza, che è caratteristica dei creatori, sia non solo un incidente di percorso, ma anche la tara genetica che conduce chi ne è affetto all’imperfezione.
La perfezione, al contrario, è cellulare, non morale.
Lo xenomorfo è geneticamente perfetto, resistente, virtualmente indistruttibile e segnato da una ricerca spasmodica della vita (la propria) contro ogni altra creatura.
Si rafforza l’idea che sia proprio questa straordinaria capacità (e caparbietà) di sopravvivere dello xenomorfo a sancire la preferenza del creatore, la benevolenza nei suoi confronti. Non un essere che uccide, l’uccisione è solo strumentale, ma un essere che vive. Con tutte le sue forze, seguendo imperterrito il proprio ciclo naturale.
Un essere che non è soggetto a depressione, ansia, e tutte quelle altre caratteristiche che, lo sappiamo, accompagnano l’autocoscienza.

Quasi istintivo associare a questa idea selvaggia della vita la stessa selvaggia indifferenza della natura, qui estesa ad altri mondi, all’intero universo.

Poi sì, tutto questo messaggio, questo impianto ambizioso suggeritoci da un vecchio maestro, deve soggiacere, un po’ per forza, un po’ per imperfezione stessa, al discorso del cinema. Che è arte collaborativa, ma non solo, è arte che, forse più di ogni altra visti i capitali impiegati, è destinata al pubblico.
E quindi la messinscena è stata piegata a tutta una serie di fattori, non ultimo quello del fandom, che non ne voleva sapere degli Ingegneri, e che voleva, ancora una volta, rivedere lo xenomorfo.

Il risultato sono due film potenzialmente grandiosi, che sono stati rovinati. Non del tutto, ma abbastanza. Non so, l’idiozia di alcuni personaggi, davvero palese, o il montaggio frenetico che mal si sposa proprio con la componente filosofica. La filosofia ha bisogno di respirare.

Non parliamo di film perfetti. Quello c’è già stato, per me è Alien del 1979. Parliamo, come ho già detto, di un’idea, di una riflessione sulla vita e sull’esistenza suggeritaci da un maestro.
Un’idea bizzarra, che sembra toglierci la dignità in quanto esseri pensanti, o che fa di noi un’anomalia che, di fronte alla natura e alla incredibile e semplice volontà delle sue creature, ci rende fragili. Quasi inutili, meritevoli di essere schiacciati.

Caso strano, il ruolo del creatore, in quanto essere pensante, è quello di generare altra vita, una spinta eterna a perpetuare questi strani agglomerati di cellule capaci di influenzare la realtà circostante, e poi di perire, uccisi dalle loro stesse creature, private di ogni rimorso o illusione.

La scena iniziale di Covenant, da molti superficialmente criticata, mi pare esemplare per concludere questo strano ragionamento.
Peter Weyland sveglia la sua creatura, David e gli dice (prima di ambulare, sic) di guardare. Come diceva Hannibal Lecter, la prima cosa che un uomo fa è desiderare. E noi desideriamo ciò che vediamo.
L’ambiente in cui Weyland e David si trovano è uno stanzone con una intera parete a vetri, che affaccia su un panorama di laghi e montagne, altamente ispirante. Quel tipo di vista che, da sola, ti spinge a riflettere sul significato dell’esistenza.
Ecco, mi è sembrato abbastanza strano che David non la prenda minimamente in considerazione, soffermandosi sulle sedie, sull’arredamento, su Weyland, ma non sul panorama. Perché David non è umano, non è mortale, non può essere angustiato da problemi quali mal di denti, indigestione, sfiga. Non è umano, non è nemmeno vivo. David è lo xenomorfo dell’autocoscienza, svolge solo il compito per il quale è stato creato, senza illusioni di moralità.

Ma il vero spettacolo, in questo universo fatto di certezze, è l’incertezza e la caducità umana. La capacità di vedere quel panorama e di esserne scossi, al di là di ogni calcolo o istinto.

Per cui, grazie Ridley. E se i film sono così così non importa. Che poi, il tuo così così è comunque al di là del bene e del male, rispetto a certi altri “capolavori”.

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