Mi metto a guardare questo film su segnalazione della mia amica Lucia, che ormai dovreste conoscere bene, data la frequenza con cui compare su queste pagine. Linkerò la sua recensione in fondo, come ho in testa di fare coi link in questo duemiladodici.
Ebbene, c’è Melissa George che non è Zooey, no, ma è comunque una mia prediletta, fin da quando, con nostalgia, ricordo che la Zia l’apostrofasse dentona. Non c’entra nulla con il film, ma i bei ricordi aiutano.
Giunto al termine di A lonely Place to die, la sensazione che ho è quella di un pot-pourri. Una specie di pastrocchio che si diverte a pescare qua e là, saccheggiando tanta altra cinematografia classica. Non è un male per forza, badate. Tanto più che, a volte, Julian Gilbey (regista) saccheggia con gusto, altre svacca. Ma il risultato finale, chissà come va ben oltre la sufficienza.
E vi dirò, magari tra qualche anno, dopo essermelo rivisto con gusto in due o tre passaggi televisivi, lo considererò un piccolo gioiello, non foss’altro per i proiettili che scheggiano le pietre intorno a Melissa. E l’acqua del fiume, vista da sotto, bionda. Chissà perché. Ma è una scala cromatica che acchiappa, trasmette calore quando non ce ne dovrebbe essere neanche un po’. E, ciliegina sulla torta, le voci del vento, quelle frammentarie, un po’ forti, un po’ confuse, che fanno pensare agli spiriti della foresta, oppure che sta per succedere qualcosa di brutto.
Ma, adesso, a visione troppo calda, proprio non me la sento di volergli più bene di quanto merita, a ‘sto film.
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[contiene anticipazioni. Be’, qualcuna. Dai, non fatene una tragedia! ^^]
Mi trovo a pensare, guardando le prime scene e le frange rocciose splittare l’una sull’altra, magie della prospettiva e della fotografia, all’Eiger di Clint Eastwood, film che ha già detto tutto, pur con un protagonista in tono minore, e poi, in un cantuccio, a Cliffhanger di Stallone. E, magia, ecco che dopo qualche istante è proprio l’Eiger, la cima svizzera, che Melissa nomina, lei esperta scalatrice in vacanza in Scozia con un gruppo di amici, che vuole una montagna, l’Eiger, che è come un titano addormentato: scali la sua parete e quello con un colpo di tosse ti spazza via, facendoti cadere per trenta lunghissimi secondi prima di toccare il suolo.
Suggestioni a parte, l’intreccio si snoda in Scozia, a base d’azione: altro richiamo dovuto è Deliverance e tutta la miriade di film che l’hanno seguito.
Il gruppo che si trova in una zona isolata e viene cacciato. Chissà perché? E basta questo, perché il come è subito evidente. In più, stavolta, c’è il fascino dell’ostaggio. Classico colpo di scena, innestato a circa un terzo di film.
Bravo il regista, invece, a mantenere sia la suspense, che a celare le svolte essenziali, che fanno mutare il tutto. E per mutazione intendo che il film cambia pelle più volte, sacrificando gli attori senza troppi patemi, quand’è giusto, e in modi diretti e chiassosi, oppure silenziosi e letali. Cambia faccia e da survival horror diviene giallo e poi spionaggio, con una strizzatina d’occhio all’action.
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La natura non mi ha colpito come ha colpito la mia socia, evidentemente, e questo perché, giocando a fare la guerra, il signor Gilbay s’è concesso una paio di svarioni di classe, ai quali non si vuole credere, ma che poi si è costretti ad accettare e dimenticare in fretta, se si vuol godere il film.
Melissa vola da più di venti metri d’altezza, in caduta libera, come la scena di Rambo, ricordate. Urta contro i rami dei pini che ne attutiscono la caduta, fino a sbattere contro uno di questi, all’altezza del torace. Poi cade nel fiume.
Ok, e Rambo, lo ricordate tutti, s’era ferito tanto che doveva ricucirsi. Melissa, invece, non si fa un graffio, né una piccola fratturina scomposta. Nulla. Salvo poi ricordarsi che è caduta e far pronunciare qualche battuta agli altri protagonisti: “Guardate! Ha braccia e gambe devastate!” Ma quando mai? Ma dove?
O non la fai sbattere durante la caduta, o non la fai cadere, caro Julian, oppure il facepalm è inevitabile, dato che Melissa dà filo da torcere ai suoi avversari fino all’ultima inquadratura.
Secondo facepalm lo si ha in concomitanza della fine di uno dei personaggi: le pallottole che lo raggiungono sono tre, e lo sforacchiano. Peccato che, tra una pallottola e l’altra il sangue e i fori sulla giacca scompaiano e che tutta la scena sia al rallentatore (che sia dannato) e disturbata da uno score martellante che odio.
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A parte questi difetti, non tanto fastidiosi se non fossero macroscopici, il film si riprende, in meglio, nell’ultima parte, laddove, tornati alla civiltà, piacevoli spettacoli di maschere e nuova linfa cromatica dà vigore, specie nel travestimento “da porco” di uno dei cattivi, all’impianto scenico. Divertente, così come i dialoghi e le nuove interazioni tra protagonisti.
Il confronto finale, se così si può chiamare, è macchiato da una nuova forzatura, che ne sbriciola la potenza fino a quel punto accumulata. No. Non mi fate vedere il cattivo che ha la sua nemica tra le mani e anziché approfittarne temporeggia e pensa ad altro e fa discorsi moralistici all’inverso, perché sennò mi viene un colpo apoplettico. E invece, il cattivo scemo c’è, e dimostra la sua pochezza per ben due volte nell’arco di un solo minuto. Ahia.
Le chiamo forzature perché tali sono. E si evitano non mettendo il personaggio che si è scelto di far sopravvivere in situazioni dalle quali non può uscire vivo: semplice ed essenziale, ma, ahimé, difficile a recepirsi.
Ma il film ondeggia, e si riprende ancora una volta, verso un finale che dovrebbe colpire coi sentimenti, ma che ci riesce solo in parte. Una strage, per salvare una singola vita innocente. Una morale medievale, epica. Ma non so quanto la si possa sposare, così com’è stata concepita e realizzata.
La recensione di Lucia
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