Di nuovo nei fifties, dopo l’ubriacatura polemico-austera del dopo Halloween. Per la precisione alla fine dei fifties, quando i disegni sarebbero stati contaminati dagli acidi assunti nel decennio seguente.
Il colore acceso che permea questo film è simile a quello che potete vedere nei cartoline dai toni sgargianti del periodo. Simile alla verniciatura delle automobili. Simile alla pelle delle Barbie. Sicché gli attori sembrano tanti pupazzi che agiscono, amano, recitano e si atteggiano a esseri umani.
Lo spostamento, anche semantico, è dal sobrio bianco e nero all’esplosione cromatica. Ma l’effetto è quello di ritrovarsi a guardare una casa delle bambole colorata, minuscola e finta; lo scopo, al contrario, è superare i limiti dell’uomo attraverso la ricerca scientifica.
Le cornici sono vecchi panorami di luce, di cartone, di verde di colline che ormai non c’è più perché ricoperto dalla cementificazione di Los Angeles.
Ma la fantascienza era sempre quella, ambiziosa al di là della tecnica, capace di dare forma a qualunque idea.
4D Man è del 1959, come recita la pagina su IMDb, “da un’idea di Jack H. Harris”, per la regia di Irvin S. Yeaworth Jr.
Pensate che giunse nei cinema italiani solo l’anno successivo, nel 1960, prima che in Francia, dove sarebbe arrivato nel 1961, e prima che in Germania Ovest. Sì, c’era la Germania l’Ovest. E ci sarebbe stata ancora per un po’.
E i doppiatori italiani, non solo gli attori americani, parlavano con voce impostata, teatrale. La pronunzia era importante, per un mondo che si era aperto, almeno da una parte, e per lei si sopportava il manico di scopa ficcato nel didietro. Un po’ come le modelle che se ne andavano a spasso in passerella col vocabolario in testa. Devozione ed eleganza. E casalinghe indaffarate in cucina…
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Dimensioni
C’era anche una strana perversione, che non c’entra nulla col manico di scopa metaforico e con la devozione di cui sopra, ma piuttosto con il gusto paradossale dell’anticipazione. Doveva essere questo che spingeva gli adattatori a creare titoli come Delitto in 4ª Dimensione, che ti spiattellavano là tutto il film e, più che quattro, di dimensioni te ne lasciavano solo una, quella del thriller sotto un’ambiziosa e sempre innovativa confezione sci-fi. Quasi a ribadire, per l’ennesima volta, che l’essere umano, al suo interno, è solo pulsioni elementari, invidia, rancore e gelosia. E queste caratteristiche le porta con sé anche attraverso i muri [veri] che l’uomo è riuscito a superare grazie alla scienza.
D’altronde, tra pianeti probiti e attacchi di creature mostruose, pare proprio non essere la suspense, l’elemento essenziale di questa cinematografia, ma la consapevolezza dello spettatore che in questi film si sarebbero potute trovare tali meraviglie. Elemento di attrattiva assoluto che annullava ogni altra esigenza che potesse riguardare trama, recitazione e ogni altro possibile aspetto qualitativo del film. Mio padre andava al cinema per vedere i mostri. L’importante era il prodigio. Meglio se palese fin dal titolo. Il ché mi porta a considerare che “Uomo in 4D”, più che attirare con la prospettiva di un colpo di scena, percorresse le vie del marketing e di una inesistente terza dimensione, oltre a quelle dell’immaginazione, vista la locandina.
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Fratelli
[contiene qualche anticipazione…]
L’intreccio è costruito su due fratelli, complementari nella vita come negli studi e nel lavoro: Tony (James Congdon) e Scott (Robert Lansing) Nelson, scienziati.
Il primo orgoglioso e brillante. Lo vediamo nell’incipit distruggere il suo laboratorio proprio a causa dei suoi esperimenti.
Tony ricerca un modo per penetrare la materia mentre Scott è al lavoro sulla cargonite, un nuovo materiale all’apparenza impenetrabile.
Tony, rimasto senza lavoro, riesce a entrare al Fairview Research Center grazie a suo fratello. Lì, oltre a tentare di convincere Scott della bontà e della portata delle sue teorie, conosce e si innamora, ricambiato, di Linda (Lee Meriwether, Miss America 1955 e futura Catwoman, nella foto), una collega.
Diversamente da quasi tutti i film coevi, sempre concentrati sull’intreccio principale fantastico, “4D Man” si concede un lungo preambolo romantico mostrandoci la nascita e il progredire della passione tra Tony, belloccio, ambizioso e sicuro di sé e Linda, colta, carina e intelligente. Scott resta nell’ombra, provando un risentimento che è familiare a molti di noi: essere lì, evidente, ma al tempo stesso invisibile.
Il punto di vista è talmente concentrato su Tony che per una buona metà del film si ha l’impressione che spetti a lui il ruolo principale. Che sia lui l’uomo a quattro dimensioni, che si cacci nei guai e che, chissà come, con l’aiuto della sua bella e del volenteroso ma sfigato fratello, ligio al senso del dovere e della famiglia, debba essere tirato fuori dai guai. Una prospettiva deludente.
Nulla di più sbagliato. Come uno spettatore degli anni ’50, sono stato condotto su una falsa pista, mentre il film, a questo punto, si svela.
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Mostro
E la sua vera essenza è la commovente nascita di un cattivo.
È un battesimo maturo, consapevole e persino audace, che nasce da basi meschine, da sentimenti luridi, tipici del bassoventre, e da quelle fitte alla bocca dello stomaco, quelle che avverti quando uno a cui vuoi bene ti porta via qualcosa che hai sempre amato, l’unica donna della tua vita, o almeno quella che credevi essere tale.
Scott, diciamoci la verità, è tutti noi. È noi quando siamo stati ignorati, quando siamo stati messi da parte e trattati con indifferenza. È noi quando abbiamo capito che, qualunque cosa fossimo stati in grado di fare, qualunque risultato fossimo stati capaci di raggiungere, lei, il nostro amore, non sarebbe mai stata nostra.
La maggior parte di noi, di fronte a questa consapevolezza, l’accetta e matura, per diventare un uomo. Altri, invece, diventano mostri.
Scott ruba l’eperimento del fratello testandolo su sé stesso e riuscendo a bucare la cargonite con una matita, salvo poi scoprire che l’ingresso nella quarta dimensione si è esteso a tutto il suo corpo e che lui è in grado di controllarlo a piacimento, tramite la propria volontà.
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Limite
Per ben quattordici volte assistiamo al prodigio che permette a Scott di attraversare la materia. Quando non si sono impiegati artifici sulla pellicola, s’è ricorso ai modellini veri e propri, con tanto di lastre metalliche penetrate da false dita umane. Ottima resa, anche se The Incredible Shrinking Man resta insuperabile.
Realistica e coinvolgente la progressione del personaggio di Scott, da questo momento in poi inarrestabile.
La coscienza di aver superato i limiti mette in secondo piano, almeno per un po’, l’interesse represso per Linda, gli consente di soddisfare ogni capriccio, dal rubare della frutta attraverso la vetrina di un negozio, fino ad arrivare a una rapina in banca.
Questo nuovo stato di evoluzione rivela ben presto un costo elevato. Ogni qual volta Scott raggiunge la quarta dimensione accelera il suo metabolismo invecchiando precocemente. Allo stesso tempo, sempre in modo incidentale, e sempre tentando di sopperire al vuoto dei suoi sentimenti, egli scopre il modo per porre un freno al suo decadimento fisico. Il suo tocco, se rivolto verso un altro essere vivente, ne cagiona l’assorbimento delle energie vitali, di fatto trasferendo sulla sua vittima l’invecchiamento precoce in modo talmente drastico da ridurla a un cadavere rinsecchito.
Ma nonostante sia divenuto incoercibile, pericoloso e virtualmente inattaccabile, nonostante riesca a penetrare qualsiasi cosa carpendone la vera essenza, Scott continua a desiderare Linda, l’unica cosa al mondo che non può avere.
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Penetrazione
Sul rapporto tra penetrabile e impenetrabile, al di là delle battutacce scontate, distribuito sulla coppia di fratelli, sulla forza di Scott nel superare per entrambi gli stretti limiti della fisicità, della materia, anche se trattasi di superamento obbligato, dettato da bisogni oscuri, si è voluto basare un intreccio incrociato su tre personaggi e un sentimento violento, intreccio organico e seducente, purtroppo non privo di errori palesi, si veda il bacio nel finale, tra Linda e Scott, esente da effetti collaterali.
Cartoline consumate, ingiallite dal sole. Ecco cosa mi ricordano questi film.
Creazioni autosufficienti e concise che riescono a sfiorare grandi temi, anche attraverso l’impiego organico degli effetti speciali a servizio del racconto, in chiave simbolica. Troppo spesso, infatti, i sentimenti sono affrontati in maniera banale piuttosto che regalare loro dignità. Questi film sono solo tentativi, riusciti a metà, inorganici e vividi. Come i sogni.
Altre recensioni QUI
Scheda del film su IMDb