Quest’articolo nasce in risposta a una mail, in cui mi si accusa di voler fare arte, senza sapere cosa voglia dire, l’arte. Ovvero di scrivere, senza saperlo fare.
A dicembre del ’96 avrei compiuto vent’anni. M’ero convinto di essere uno scrittore già da un anno, in concomitanza col passaggio all’Università. Uno scrittore che produceva arte, che spandeva senso artistico tutt’intorno.
Quella è un’età in cui la superbia, intellettuale e non, per chi ce l’ha, diventa pericolosa, perché è supportata dal fisico, dalla forza. E io mi sentivo un leone. Avrei potuto mangiare venti hamburger in un giorno solo e non ingrassare un etto. La fine di Elvis, con la faccia ficcata nel cesso, era lontana. Percorrevo chilometri a piedi, di corsa, e il fiatone passava dopo pochi istanti. La vita era bella e incosciente. Sotto molti aspetti, a dire la verità, lo è ancora adesso.
Era un’età senza internet, o meglio, l’internet era per pochi privilegiati, e masterizzare un cd voleva dire bruciarlo una volta su cinque. Ragion per cui, ogni riflessione si tramutava in un monologo. Non eravamo diversi, prima di internet, da tante monadi senza porte e finestre.
Ricordo che passeggiavo lungo il vialone che conduceva all’Università, mi fermavo a comprare un bombolone caldo grondante nutella, a deplorare i vecchi stanchi che mi camminavano intorno, a carpire i segreti della gente, mentre una sfilata di extra-comunitari tentava di piazzare vhs porno amatoriali, a prezzi stracciati. Li osservavo muoversi, comportarsi, parlare. L’idea era scrivere della vita, e non c’è vita migliore che quella che c’è in strada.
Il 1996 fu anche l’anno in cui conobbi Charles Bukowski, attraverso i suoi scritti. E mi resi conto che scrivere non era poi un’idea così romantica. Non ci avrei sedotto le donne, con la sfiga intrinseca che lo scrittore romantico si porta addosso, un tempo si sarebbe detto sifilidico. Men che mai avrei prodotto arte.
Scrivere era un concetto legato al demone, sì, quello che ti si poggiava in spalla e ti sussurrava le passioni da buttare giù. O quello, o Charles Bukowski. E io avevo scelto Charles.
Ubriaco, arrapato (diceva lui), scrittore che scriveva sulle buste del pane, perché non aveva i soldi per comprarsi la carta. O perché non faceva in tempo a prendere la busta paga, che già s’era rifugiato in qualche bar a bere whisky annacquato e a rimorchiare qualche puttana.
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A vent’anni, quelle di Charles sembrano la vita e la scrittura più belle del mondo. Tanto che ci si augurava di finire in mezzo alla strada, che arrivasse la Crisi, tanto, se ce l’aveva fatta lui, ce la poteva fare chiunque. E intanto la vita, quella che ti fa scrivere, t’è entrata nella penna, preziosa.
Non che servisse chissà quale conoscenza, per scrivere. Era sufficiente un libro di grammatica, per apprendere il codice universale, comprensibile da tutti. Il trucco sta, mi dicevo, nell’applicare variazioni personali a questo codice. Ecco, in due parole: lo stile. Tutti capiranno quello che c’è scritto, perché ho usato il codice universale, e tutti sapranno che sono stato io a scriverlo.
Il genere era un concetto buono solo per i cataloghi. Ero già convinto, nel 1996, che Dick fosse uno scrittore. Come Miller, come Fitzgerald. Come Bukowski. Questi sono scrittori. Inutile aggiungere altro. Serve solo a impoverirli. King? No, King non lo era.
Di Dick lessi La Svastica sul Sole che è tutto tranne che un genere. Sì, lo so, vinse quel fottuto premio. E credete sul serio che un premio aggiunga valore? O serve soltanto ad aumentare l’illusione di stare parlando di cose che reali non lo sono mai state?
Ascoltavo anche musica metal, thrash metal, per la precisione. Serviva per sfogarsi. Nel 1996 i Sepultura pubblicarono quell’album, Roots, che segnò la loro fine. Un album magnifico, perché in spregio agli stretti confini del genere, e del panorama metallico internazionale, si permisero di pubblicare questa canzone e di contaminare molte altre tracce del medesimo album:
Sono i Sepultura insieme agli Xavante, tribù del Mato Grosso. Metallo tendente al Death, che si permetteva sonorità arcaiche, miste a strumenti a corda e tamburi. Evoca immagini di enormi falò, attorno a cui si svolge una danza antica come il mondo, intorno ai quali venivano narrate storie, senza badare al genere, ma all’unico scopo per le quali erano concepite, tramandare informazioni, suscitare reazioni, istruire, intrattenere, propagare. Cosa? L’illusione della vita umana.
Insomma, questo è quello che io ci vedevo. E lo vedo ancora oggi. I Sepultura credevano di vederci il loro futuro, che invece s’era messo dietro, a sghignazzare. Quel che fecero non fu metal, ma musica. Capite la differenza?
Eppure, una grande lezione, quella della contaminazione, il concetto più fertile della letteratura antica, servitomi su un piatto d’argento da maestri sconosciuti e, forse, inconsapevoli.
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Un autore è un autore anche quando sbaglia. Su quest’assunto, abbiamo costruito belle e interessanti conversazioni. E discutiamo ancora sul senso che certi film, di genere, hanno ancora oggi. E come di film, parliamo anche di libri. Ma cos’è un autore? Cos’è un film, cos’è un libro?
Io sono un autore? Alcuni sosterrebbero di sì, me compreso. Altri no. Neppure questa è una definizione certa, perché come le altre, non ha senso. Ci fa comodo, tutto qui.
Un autore è uno che ha studiato le regole di una qualunque disciplina e le applica, giusto? Forse. O forse no. Io, ad esempio, non sono d’accordo.
L’autore è quello che le regole non si limita ad applicarle, ma le infrange, contamina e crea qualcos’altro. E che è riconoscibile quando lo fa. Ancora una volta, come sempre, personality goes a long way. Qualche volta quel nuovo che ha creato è una cosa ottima, altre è merda. E magari cent’anni dopo sarà vero il contrario.
Ed ecco quello che resta da fare. Scrivere. Discuterci sopra, allo scrivere, non serve a molto. È bello scrivere, e cambiare le cose. E farlo nella più totale incoscienza. Voglio far rivivere il signor Hell, mettendo in piedi altre pagine di un diario che diario non è, perché scritto al presente. E me ne frego. Perché è una cosa che mi diverte. Mi diverte anche fregarmene. Sta nascendo anche una versione pulp di Girlfriend from Hell, in versione bionda, sexy e nazi. Un trash. E sarà bellissimo lavorarci. Sarà arte, alla fine? Ma chi vuol fare arte? Cos’è l’arte se non tutte le elucubrazioni che vengono dopo? All’arte non ci ha mai pensato nessuno: quello che è stato fatto finora è dipingere, comporre, scolpire o scrivere. Io, personalmente, non ci penso più dal ’96. Merito di Charles.
E gli eBook, finché non diventeranno fuorilegge, sono il mezzo universale che consente a tutti di poter scrivere. Ragion per cui, non ve lo fate portare via. Finireste per rimpiangerlo.
Ecco cos’ero e cosa sono:
“[…] Bussai.
Aprì un tipino alto snello delicato che spandeva odore di senso artistico tutto intorno. Si capiva che era nato per Creare, per Creare cose grandiose, libero da ogni impedimento, mai angustiato da coserelle meschine come mal di denti, incertezza, sfiga. Era uno di quelli che hanno l’aria di un genio. Io avevo l’aria di un lavapiatti per cui i tipi come lui mi stavano sempre un po’ sui coglioni.”
Eccomi qua, dunque, il lavapiatti della scrittura. Uno che riesce ancora a divertirsi nel tentativo. Uno che non si prende troppo sul serio, che ha imparato la lezione. E che vuole metterla in pratica: scrivere, senza starci troppo a pensare. Voi, continuate a parlare di generi e fantasmi, se vi piace.