Il samurai è come la sua controparte oscura, il ninja, o come i cowboys o i bounty killers, personaggio appartenente all’immaginario fantastico, più che storico, di ciascuno di noi. Abituati a mitizzarlo, non lo comprendiamo appieno. E per costruirci un’immagine nitida di esso, siamo costretti a ricorrere agli stereotipi, che abbondano.
Un film sui samurai è, parimenti, il sogno nel cassetto. Purché sia fatto bene. Ben concepito e realizzato.
Takashi Miike, chi era costui? Diversamente da altri, non apprezzo né le biografie, né le interviste agli autori, di un’opera volendo conoscere solo il risultato finale, non le esigenze che hanno portato a realizzarla.
Per cui non so se il film sui samurai fosse sogno segreto di Miike, come per un italiano potrebbe essere, che so, un film sull’antica Roma, che esuli dalle regole commerciali.
Di 13 Assassini s’è detto che rappresenta una svolta nella carriera del suddetto regista. E ci posso anche stare, visto che l’anno prima s’era divertito, presumo, a dirigere Yattaman.
Quanto ci sia di storico, in questo film, a parte i costumi e i set e un accenno alla rigida vita sociale che caratterizzava il Giappone feudale, non so dirlo. Quel che è certo è che c’è il mito del samurai, trattato con rispetto, stavolta, incentrato su una trama cruda, elementare e violenta. Il samurai, uomo di spada. Che vive e muore sulla lama. Una buona morte, si sarebbe detto un tempo.
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Samurai deriva dal verbo saburau, servire. Questo è ciò che facevano, quello per cui vivevano. In quanto casta aristocratica, la casta dei guerrieri. Combattevano per il loro Signore, da intendersi, quest’ultimo, nella pura accezione di entità superiore. Poco importava che fosse uomo di buon cuore o bastardo. Il samurai è dovere verso di esso, null’altro; non deve avere, né gli è richiesto, coscienza o giudizio, deve servire. Ecco perché il film si intitola 13 Assassini.
L’unico samurai, tronfio e sicuro della sua logica stolta, è Hanbei che, caparbio, continua a difendere il proprio Signore Naritsugu, fratello dell’attuale Shogun (colui che amministrava la giustizia),a costo della vita, incurante della condotta criminale di questi.
Gli altri, i tredici uomini di spada radunati e segretamente incaricati di uccidere Naritsugu cessano di essere samurai, a meno che non li si voglia considerare al servizio di un principio, la vendetta più che la giustizia, e diventano ciò che sono, come nella più classica tradizione epica, guerrieri che bagnano la loro vita col sangue. Epica come la visione ineluttabile che del loro compito dà agli altri Shinzaemon, il leader del gruppo. Essi compiono questo incarico che poco o nulla ha di onorevole perché per loro non c’è alternativa, secondo la loro natura, ciò che essi sono; senza alcuna possibilità, a meno di tradire sé stessi, di non esserlo.
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Scene crude, accompagnate da visioni che, per chi come me non è abituato a torture e squartamenti filmici assortiti, fanno un certo effetto, specie se a portare tali segni sono donne. Giusta disperazione ritratta con sguardo freddo, più che cinico, bilanciata, invece, dall’assoluta spietatezza, resente l’indifferenza di Naritsugu che è sinceramente convinto di essere superiore al popolo, come i samurai, nato per servirlo. Il modo migliore per il popolo di servire il proprio signore è tramite il dono della vita. Questa la convizione sulla quale basa il suo annoiato agire quotidiano che, nella sua sistematica violenza, appare più passatempo di sorta che manifestazione di qualche disturbo latente. Tra lo schiacciare insetti e lo schiacciare crani del popolo, Naritsugu non fa differenza, cosa che, contrapposta alle lacrime disperate di alcune delle vittime sopravvissute alla sua furia, dà un senso di disturbo che, si spera, possa conoscere soddisfazione cruenta per mano dei Tredici guerrieri.
Naritsugu uccide, questo è quello che fa. Non perché occorra, ma perché ciò rientra nei doveri, quelli della sua visione neppure distorta, della realtà, ma radicalizzata. Il suo agire è fondato sullo stesso principio che porta il suo samurai, l’abbiamo visto, a difenderlo fino all’ultimo, nonostante a conoscenza delle atrocità perpetrate alla luce del sole.
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[contiene anticipazioni]
Ora, questà impunità testarda e arrogante del fratello dello Shogun è, insieme al grandioso massacro che occupa la seconda parte del film, il suo punto di forza e anche il suo punto debole.
Sì, devo ammettere che, per quanto abbia apprezzato la coreografia dei combattimenti, perfetta e tensiva come non ne vedevo da tempo, il tutto si infrange nei mugolii finali del pentimento, tanto repentino quanto folle, a quel punto.
Meglio, di gran lunga, un’ossessione incoercibile, fino alle estreme conseguenze, che la posticcia presa di coscienza, non si sa quanto sincera, dei minuti finali.
La figura del Samurai, benché fascinosa, ne esce massacrata in termini di logica. Alla fine, nessun valore dietro azioni tali da generare epica guerresca per i secoli a venire, ma solo ineluttabile natura, gioco del destino, null’altro.
Sicché, anche quella giustizia violenta che si attende sin dall’inizio e con ansia, dopo aver visto la donna mutilata, non conosce sfogo né soddisfazione.
Messinscena coerente, in ogni caso, che si ritrova nello sguardo incerto dei sopravvissuti, confusi e storditi dalla realtà, più che semplicemente stanchi.
Grande spettacolo. Tale da far sorvolare sull’effettivo numero di contendenti che, fendente dopo fendente, appare essere di gran lunga superiore alle stime. Il villaggio di legno, distrutto da esplosioni, con le viuzze disseminate di corpi e sangue, è visione potente, come le morti di alcuni dei Tredici, circondati da avversari timorosi e incerti, senza futuro, senza scopo che non sia negli occhi di chi è sopravvissuto per raccontarlo.
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