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Masche

Credo che la poetica di Masche, di Fabrizio Borgio, si possa racchiudere nel passo seguente:

Sarebbe potuto diventare un centro a misura d’uomo e rifiorire, Ubertoso, invece s’era isolato dal mondo civile e trascinava la sua esistenza lasciandosi cullare dai ritmi delle colline e di tutto ciò che quelle terre custodivano.
Tra i suoi abitanti, vigeva una rassegnazione coriacea, un’accettazione del bene e del male come elementi indissolubili dell’esistenza: un buon raccolto, una cattiva vendemmia, un matrimonio, un figlio portato via dalle masche.

masche1E non solo.
È nella quotidianità anonima, abbruttita da un’esistenza vinta, che s’individua uno dei cardini di questo noir italiano, piemontese per la precisione, che attinge e ama quel sovrannaturale che è possibile rinvenire ovunque, voltando appena lo sguardo.
Su cose semplici: vicoli pavimentati a pietre, soffocati da case dai muri sghembi, biancheria stesa ad asciugare, versanti di colline nebbiose, lungo i quali sfrecciano piccole luci maligne.
Borgio costruisce, accanto all’indagine poliziesca, una ricostruzione del tessuto umano e sanguigno del territorio delle Langhe. Quella quotidianità bruta e agra, già citata, che si sente non già nel fatto di sangue, un duplice omicidio che cagiona l’investigazione, ma nel paese e nei suoi ritmi vitali, sonnacchiosi, che paiono vivere e attendere un’alba perenne, l’ora dei manovali, di chi ammazza i vitelli al macello, per ricavare i pezzi di carne coi quali verrà preparato il bollito servito, con un buon bicchiere di vino, alla locanda quella stessa sera.
Stefano Drago è il protagonista, investigatore del DIP, ufficio che s’occupa di eventi paranormali. Quieto, pacato, riflessivo e aracnofobico, chiamato a risolvere il mistero di due vecchie solitarie rinvenute nella loro cadente dimora: fatte a pezzi.

L’autore, oltre al gusto del dettaglio vivido e colorato, quel rosso scarlatto che macchia tappezzeria fatiscente e orna membra sparpagliate e violate, sembra aver cura particolare per un senso spesso sottovalutato dai narratori: l’olfatto.
È il lezzo dolciastro della decomposizione che ci porta a conoscere l’ultima forma terrena delle vecchie signore, è sempre l’odore che impregna una noce a richiamare alla mente locali sotterranei, umidi, vecchie immagini della tradizione popolare che, quindi, appartiene anche e soprattutto alle vittime. Serve a conoscerle e a farcele conoscere.

E il racconto avanza dal quotidiano all’oggetto: un frigorifero, una noce, delle luci che sfiorano il sottobosco delle colline. A ogni oggetto evocato corrisponde un progresso nella storia.
Leggendo, l’ho confidato anche all’autore, la mia mente ha rievocato vecchie storie conosciute da bambino: ispettori sagaci che s’aggiravano nel nord dell’Italia, specie nella Lombardia nebbiosa o nella bassa padana, seguivano indagini fosche, misteri che spesso svelavano la loro intima natura rurale, aggrappata al territorio, quelle montagne boscose, la pianura infinita, la monotonia della vita dei piccoli borghi isolati, scandita dal campanile della parrocchia, da una partita al biliardo e dal bicchiere della staffa. Un insieme di suoni e odori fascinosi, ma soprattutto intimi e agghiaccianti.

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Le masche sono le streghe popolari piemontesi, anche se sarebbe ingiusto e riduttivo definirle soltanto streghe. Meglio dire che esse sono espressione del territorio dal quale sono state generate. Un male antico, indifferente allo scorrere del tempo e delle stagioni che, soprattutto nei piccoli paeselli isolati, sembrano cristallizzate in un tempo infinito, un sogno nebbioso dal quale è impossibile fuggire, anche e soprattutto con la fantasia.

(Ottimo romanzo breve, cui avrebbe giovato maggiore cura nell’edizione. Molto gradita una ristampa.)

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