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H.P. Lovecraft – Le Montagne della Follia

Capita che in questi giorni di calura e soprattutto umidità da giungla equatoriale si abbia voglia di spegnere tutto e di concedersi una piacevole serata leggendo un libriccino. Nero. Dal titolo indicativo: Le Montagne della Follia (At the Mountains of Madness).

copertina

L’autore è Howard Phillips Lovecraft, conosciuto con un soprannome che detesto e che non userò perché, più che la particolarità e l’alone di mistero che accompagna la sua persona, a me evoca la disperazione e la difficoltà di un uomo che, per tutta la sua esistenza, ha lottato per campare, fallendo nel tentativo. Niente soprannomi idioti.
Contemporanemente, mentre faticava annaspando nella crisi economica dell’epoca, condizione comune a molti suoi colleghi, Robert Ervin Howard tra questi, Lovecraft ha provveduto a deliziarci con racconti, novelle e romanzi della sua personale visione mitologica della storia del mondo.
Le Montagne della Follia è un romanzo breve, una storia. E basta. Se proprio esigiamo dettagli, è letteratura a tema fantastico. Non mi va di catalogare ciò che non può essere catalogato: la letteratura.
Leggendolo, fin dal titolo in copertina, mi è venuta in mente la frase più famosa dell’autore:
L’emozione più vecchia e più forte del genere umano è la paura, e la paura più vecchia e più forte è la paura dell’ignoto.” (dal saggio Supernatural Horror in Literature)
Frase efficace, non c’è che dire. E anche corretta, da un certo punto di vista. Che certamente condivido, preferendo però gli archetipi Jungiani. Poi vado a leggere il titolo… le montagne della… quindi, riflettendoci, so già che ci saranno delle montagne e che qualcosa andrà storto lì nei paraggi… e dove sta l’ignoto?
Anni fa, dello stesso autore, iniziai la lettura di Kadath, ma mi fermai alle prime righe:
Tre volte Randolph Carter sognò la meravigliosa città, e tre volte venne portato via mentre si trovava ancora sull’alta terrazza che la dominava. Riluceva, dorata e splendida nel tramonto, con le sue mura, i templi, i colonnati e i ponti ad arco di marmo venato, mentre fontane d’argento zampillavano con un effetto prismatico su ampi piazzali e giardini odorosi, e larghe strade passavano tra alberi delicati, urne ornate di boccioli e statue d’avorio disposte in file lucenti.
Mi fermai perché conoscevo l’autore e non volevo che l’immagine onirica che mi era stata donata all’inizio fosse spogliata di tutta la sua meraviglia dall’impulso di Lovecraft a mostrare ciò che non deve essere mai mostrato… Così facendo ho conservato l’idea di questa splendida città sconosciuta.

[ATTENZIONE! CONTIENE ANTICIPAZIONI!]

Le Montagne della Follia fu un libro scritto nel 1931, ma pubblicato, dicono rimaneggiato, nel 1936, un anno prima della sua morte, dopo diversi rifiuti da parte degli editori. Insuccesso che aveva suggerito all’autore l’idea di cambiare mestiere e lasciar perdere la scrittura.
Sia come sia, la storia è scritta in prima persona, l’io narrante è uno scienziato membro di una spedizione in Antartide il cui compito è l’esplorazione delle zone interne e sconosciute del continente e la raccolta e  conseguente campionatura di strati geologici. La tecnica narrativa è quella del flashback (Ooohh, LOST è DAVVERO RIVOLUZIONARIO!!!), il protagonista è stato testimone di fatti terribili e il suo messaggio è, o dovrebbe essere, di monito per coloro che si accingono a ripetere lo stesso errore.
Avanzando col racconto, il gruppo si divide e il protagonista riceve via radio i rapporti giornalieri di un suo collega, il dott. Lake, andato in avanscoperta con altri membri della spedizione. E’ Lake effettivamente a scoprire, tramite un sorvolo, una catena montuosa più grande dell’Himalaya, recante sulla sommità strane formazioni cubiche, vagamente artificiali, a decidere di atterrare lì nei pressi e a scoprire, effettuando i primi scavi, strane e sconosciute creature dal corpo “a forma di botte“, dotate di numerosi peduncoli e tentacoli, e dalla testa a forma di stella a cinque punte perfettamente ibernate nel ghiaccio che, stranamente, innervosiscono i cani da slitta della spedizione.
La descrizione delle creature, ben presto battezzate da Lake gli “Antichi“, in onore dei libri occulti che sembrano essere la lettura preferita sua e dell’io narrante (che si pente più di una volta di averli letti, semplicemente per il fatto che ciò che ha visto gli ha ricordato ciò che ha letto…) è di una precisione noiosa, come è sempre stato in Lovecraft, ricchissima di dettagli  enunciati con pignoleria maniacale che rendono noto l’ignoto.

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Lovecraft e L'Antico ((da: digitalmeltd0wn.blogspot.com)

L’assenza di ulteriori comunicazioni da parte di Lake nei giorni successivi la scoperta insospettisce i restanti membri della spedizione che decidono così di partire alla volta della catena montuosa. Ciò che trovano è l’accampamento di Lake e del suo gruppo distrutto, apparentemente da una tormenta di neve. Tutti sono morti o dispersi, l’equipaggiamento è perduto. La spedizione è così fallita e il gruppo riparte. Il racconto a questo punto prosegue con la confessione del protagonista che ammette di aver taciuto su alcuni dei terribili e sconvolgenti avvenimenti che, di fatto, hanno imposto a lui e a un suo collega di mentire anche ai propri compagni per spingerli a partire abbandonando definitivamente le montagne della follia.
Inizia così, overdose di descrizioni dettagliate a parte, la sezione più efficace del racconto.
Quelli che Lake ha trovato tra i ghiacchi e da cui è stato ucciso erano esemplari ibernati viventi di una razza aliena intelligente, proveniente dallo spazio, che aveva colonizzato eoni addietro la terra, lottando contro altre creature aliene e finendo esule in quei luoghi dimenticati a causa di guerre e cambiamenti climatici radicali. L’io narrante e un suo collega effettuano un volo di ricognizione sulle montagne per indagare sulle strane formazioni rocciose individuate da Lake giorni prima per scoprire che esse sono i bastioni di una gigantesca città costruita da quegli stessi alieni su un altopiano. Esplorando le ciclopiche sale abbandonate e decifrando i bassorilievi onnipresenti i nostri protagonisti apprendono così di non essere altro che esponenti di una misera forma di vita intelligente, quella umana, infima se paragonata alla grandezza intellettuale e alla conoscenza scientifica delle stirpi che l’hanno preceduta e che potrebbero tornare a reclamare il proprio dominio.
Sulle tracce degli esseri dalla testa a forma di stella risvegliatisi dal torpore i due scoprono che questi non sono gli unici alieni nei paraggi e che, soprattutto, c’è qualcos’altro, un nemico sconosciuto che li sta uccidendo. Un nemico ancora più mostruoso e più potente di loro… E anche qui, anziché lasciarlo intuire, questo nemico è descritto:
Era una cosa terribile, da non potersi descrivere, più grande di qualsiasi treno sotterraneo… Un’informe congerie di bolle protoplasmiche, accese debolmente di luce propria e con miriadi di occhi temporanei che si facevano e sfacevano come pustole di luce verdastra su tutta la faccia rivolta a noi e che riempiva la galleria […]”.
Vale a dire un gigantesco blob.
Non so voi, ma io sono molto più terrorizzato dalla voce di Azzurrina che da un’ “informe congerie di bolle protoplasmiche” o da esseri con la testa a forma di stella.
Ciò che è davvero curioso è notare come, dopo una linea d’azione che è  tutta improntata sul concetto dell’ignoto, sul fascino e sul terrore che esso evoca nella mente umana, che è quasi un dogma per lui, Lovecraft sentisse impellente la necessità di svelarcelo, quell’ignoto, e di mostrarcelo come lui se l’immaginava, ovvero solitamente come un qualche ammasso informe dotato di bocche dai denti aguzzi, una manciata di occhi e viscidi tentacoli semoventi di vario genere e lunghezza, una mistificazione che fa ridere i polli, “Già trent’anni fa Peter Penzoldt, in Supernatural in Fiction, ironizzava sulle ineffabili mostruosità che popolano i racconti lovecraftiani, asserendo che purtroppo lo scrittore fa sempre del suo meglio, e forse persino troppo, per descriverle, proponendoci ridicoli assemblaggi di zampe e proboscidi elefantine, volti dall’aspetto umano, tentacoli, occhi luminescenti e ali di pipistrello, per non parlare poi dell’insostenibile fetore che accompagna categoricamente le creature risultanti da un simile cocktail demenziale” (Roberto Barbolini). Ed è un vero peccato perché la storia, le sue storie in generale sono coinvolgenti e ricchissime d’atmosfera. Così come risulta essere questa, deliri biologici e geologici a parte. Stilisticamente non ineccepibile, con dozzine di concetti ripetuti inutilmente e particolari altrettanto inutilmente sottolineati. Davvero incredibile scoprire che la Gloriosa Storia degli Antichi si riduca a un “[…]governo[…] complesso e probabilmente di tipo socialista, anche se a questo proposito i bassorilievi non hanno potuto darci nessuna sicurezza.” e a tutta una serie di sproloqui innominabili che danno a queste creature una dimensione troppo terrena, nei loro conflitti con le altre specie sconosciute, nei loro problemi di adattamento climatico, etc… problemi che li privano di quell’aura  di antico misticismo e superstizione che Lovecraft stesso, poche pagine prima, era riuscito magistralmente a creare.
Il mio parere sul libro, non sull’intera opera di Lovecraft, è comunque positivo, nonostante le sue pecche innegabili e le sue ingenuità e l’eccessiva  tendenza a mostrare le cose. Divertente e coinvolgente, se ci si lascia trasportare sui bastioni della sconosciuta città dell’altopiano di Leng. Ma come per Kadath, sarebbe meglio restare su quei bastioni  a fantasticare di epoche remote ormai dimenticate e sepolte dai ghiacci e non addentrarsi a caccia di blob verdognoli massacratori di pinguini…
L’idea della spedizione scientifica nel continente all’epoca meno noto è vincente, tant’è che ne sono stati tratti due bellissimi film, The Thing from another World (C. Nyby, 1951) e The Thing (J. Carpenter, 1982). Da un anno circa gira inoltre la voce che il regista Guillermo del Toro stia progettando un adattamento del racconto. Sarei proprio curioso di vederlo.

Leggere, leggere e ancora leggere…

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