Cinema

La Solitudine e l’Estetica dell’Eroe (in Taxi Driver)

“In ogni strada di questo paese c’è un nessuno che sogna di diventare qualcuno. È un uomo dimenticato e solitario che deve disperatamente provare di essere vivo.”

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Questa la frase che racchiude, meglio delle altrettanto celebri sulla “solitudine” o sulla “sporcizia della notte”, il significato di Taxi Driver. Il nucleo primigenio che è proprio dell’essere umano.


Solo che l’essere umano, già alla metà degli Anni Settanta (il film di Scorsese è del 1976) e sicuramente da prima, almeno dal secondo dopoguerra, aveva conosciuto vette di alienazione sociale insondabili, che erano state espresse e sofferte dai movimenti artistici, col rifiuto della forma classica, bella e soave, per rifugiarsi piuttosto nel concetto dell’arte, quell’astrattismo, quelle attese che portavano ai tagli sulla tela: massima espressione dell’idiosincrasia.
Ecco, in Taxi Driver si muove l’essere umano, Travis, già vittima di per sé in quanto reduce di guerra (quella del Vietnam) e ammantato dell’alienazione tipica moderna, esplosa in tutta la sua paradossale enormità dopo, io credo, che l’industrializzazione, supremo progresso della specie umana, è stata piegata allo sterminio della stessa.
Per cui si parla di alienazione sociale, di incomunicabilità, attraverso simboli ad essa contrari. Da sempre. È il modo adatto per farlo, forse il solo capace di comunicare le dimensioni del fenomeno.

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Tutto il peso, la portata dell’alienazione di Travis, colui che, come tutti gli uomini vivi, cerca uno scopo e ad esso vota la sua esistenza, è incarnato dalla metropoli: enorme, sfavillante, luccicante e pulsante. Eppure, in sì vasta umanità, l’uomo riesce a essere solo. Forse, proprio a causa di questa.
La solitudine infatti va vissuta (e rappresentata) negli opposti. Tale, ed enorme, è quella vissuta dal tassista, quanto vasto e all’apparenza vitale è l’ambiente in cui si muove.
Sembra quasi l’applicazione del contrappasso. Più si cerca di entrare in contatto con i propri simili, più la società che noi stessi ci siamo creati diventa sfuggente, illusoria nella propria forma, fino all’estrema conseguenza (probabilmente profetizzata in Her), quella che vuole l’essere umano, in quanto creatura sociale, smaterializzarsi onde riuscire a provare, ancora una volta, quelle sensazioni che fanno parte del proprio essere, ma che lui non avverte più o per le quali prova ormai un senso di smarrimento.

“Io ho sempre sentito il bisogno di avere uno scopo nella vita non credo che uno possa dedicarsi solo a se stesso, al proprio benessere. Secondo me uno dove cercare di avvicinarsi alle altre persone.”

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Taxi Driver è un preludio all’età contemporanea. Oggi si soffre la solitudine (che forse è condizione naturale anch’essa) attraverso lo schermo di un cellulare, ieri, nel 1976, si soffriva a bordo di un Taxi, vedendo le immagini correre sui finestrini come fossero schermi.
La tragedia è potenziale, perché il messaggio pare essere sempre lo stesso: l’autodeterminazione, che in Travis trova forma e scopo nella liberazione di Iris, attraverso la distruzione dei suoi carcerieri e, con essi, l’autodistruzione (alla fine della strage Travis tenta di togliersi la vita, ma la pistola è scarica), l’autodeterminazione, dicevo, sembra oggi possibile solo attraverso azioni che irrompano nel quotidiano assopito, che lo devastino. Tanto i nostri sensi, assuefatti alla sovrastruttura sociale, sono torpidi, tanto più forte urge il distacco.
Qui parliamo di estermi, ovviamente. Tutta la anelata autodeterminazione di Travis, quel trovare uno scopo, sono filtrate da una visione distorta. Ma in nuce, il contenuto del messaggio, quell’annientamento del tessuto del reale, sembra essere esatto, per quanto portato alle estreme conseguenze.

“La solitudine mi ha perseguitato per tutta la vita, dappertutto. Nei bar, in macchina, per la strada, nei negozi, ovunque. Non c’è scampo: sono nato per essere solo.”

Si parla di persecuzione, da parte della solitudine. Eppure, l’alienazione da sé e dai rapporti umani procede galoppante.
Si preferisce amare una voce, per ritrovare la purezza dei sentimenti. Si preferisce guardare un porno piuttosto che avere il coraggio di trovarsi di fronte un altro essere vivente che non può, non vuole essere trattato come un oggetto. Questo il messaggio. Che si può estendere ovunque, e a chiunque.
E, d’altro canto, una società siffatta e illusoria inganna se stessa. Determinante alla costruzione involontaria del destino di Travis e di tutti gli uomini, l’ingenuità sociale, la mente addormentata del bene comune, s’inganna più volte e viene ingannata: Palantine (il candidato alla presidenza degli Stati Uniti bersaglio del tentativo di autodeterminazione di Travis) urla “Noi siamo il popolo!”, popolo che, ci viene mostrato più volte dall’interno della cabina del taxi, è fatto d’insensibilità e inettitudine. Quel popolo che ha un disperato bisogno di farsi ingannare, di credere che tutto sia perfetto, che vada tutto bene, al di sotto della patina di sporcizia notturna…

“Vengono fuori gli animali più strani, la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori. Un giorno o l’altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre.”

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Il popolo che aspetta il diluvio universale. Che sia Palantine, o Travis, colui che viene scambiato, in una sorta di agnizione alla rovescia, per l’eroe che, non si sa come, senza scopo apparente, sfida il male per restituire a una bambina sfruttata la propria libertà, e i suoi sogni (e l’inganno volontario prosegue fino alla fine, con Betsy che ritrova interesse per Travis, lo stesso uomo che, visto per ciò che era, tanto aveva aborrito in precedenza).
Per cui, non solo film sul disagio del singolo, ma soprattutto visione distopica (che come sempre accade è solo anticipazione per ciò che verrà confermato e atteso, puntualmente, decenni più tardi), coi singoli che evadono dagli striminziti confini dei piccoli personaggi, per diventare simboli rappresentanti migliaia di individui sofferenti, che s’affannano a capire, e a tentare di piacere a, un mondo ineluttabile, fatto di menzogna, di natura orribile e violenta, quando, per tutta la vita, ci hanno raccontato che le cose hanno un senso.
Paranoia e disillusione che deflagrano nel sacrificio rituale finale (quella bloody mess, seguita alla preparazione meticolosa e alla “vestizione” di Travis che, come nei tempi antichi, rinuncia al proprio aspetto quotidiano per compiere un atto al di là dell’umano, un atto “eroico”, mascherando se stesso, oppure portando alla luce il suo vero io), durante il quale l’eroe, come sosteneva Nietzsche, si rende adeguato all’azione, qualunque essa sia. L’unica costante, ora come allora, è l’eccezionalità della visione, simboleggiata dal sangue. E dai colori.

Questo è il senso dell’epica.

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  • Un pezzo semplicemente stupendo.

    • 10 anni ago

    Non mi convince molto il finale letto come sacrificio. Che dovrebbe portare a qualcosa, essere uno scambio, no?, ma nel film è inutile. Anzi è paradossalmente il suo rovesciamento. Il modo per inquadrare di nuovo il deviante dentro gli schemi della società. Per normalizzarlo e trovargli un suo posto, accettabile e confortante e comprensibile – anche se illusorio. Infatti la sequenza finale m’è sempre parsa la fantasticheria di un Travis moribondo o giù di lì.
    Il resto dell’articolo, be’, è il nostro attuale coma generalizzato. Complimenti per l’analisi.
    Saluti

    Limbes

    • È da intendere come sacrificio rituale. Nel senso, ammazza i malviventi come fossero dei tori nell’antica Grecia, per propiziarsi un dio ignoto, per “mettere a posto le cose”, in un certo senso. 😉

      Grazie.

  • La solitudine mi ha perseguitato per tutta la vita, dappertutto. Nei bar, in macchina, per la strada, nei negozi, ovunque. Non c’è scampo: sono nato per essere solo.

    Questa è senz’altro la citazione che più mi rappresenta, tra le migliaia che ho memorizzato da altrettanti film.
    Credo che rappresenti molti di noi, anche chi è solo anche se si circonda di decine di persone.
    Travis è un “eroe” tragico, eroe dei nostri tempi. Non un simbolo, bensì un monito di come ci stiamo tutti trasformando, confrontandoci con un’epoca disumanizzante. Diventiamo mostri per non soccombere ai mostri. E magari manco ce ne accorgiamo (Travis è poco consapevole di tutto ciò che lo circonda, no?

    E se andava così già nel 1976, figuriamoci ora.

    Non ho nulla da aggiungere, perché le cose veramente serie le hai scritte tu nel bellissimo articolo che sto commentando.
    Complimenti!

    • È tragico sì, anche perché. se è vera la teoria che per “colpire” l’immaginario bisogna rompere gli schemi di quello stesso immaginario con la violenza, allora molti eventi tragici realmente accaduti trovano una loro dimensione, per quanto ingiustificabile, ma in ogni caso prevedibile. Fa paura.

      Grazie mille. 😉