L'Attico

La generazione derubata

La generazione derubata.
È da ieri che ci penso. Ci rimugino su, provo sentimenti accesi, contrastanti.
Ho letto l’articolo di Sommobuta, l’hanno letto in molti, oggi; mi sono ricordato di averne scritto uno io, poco meno di un anno fa, su un argomento simile, sentito già anni prima.
E poi c’è il fatto di cronaca, la scelta di Michele di farla finita perché alieno a questo mondo.

Ora, non è su Michele che mi voglio soffermare. Perché è una scelta personale, che incide su poche vite, quelle di chi gli stava accanto, ed è incentrata sulla sensibilità, si possa o meno condividere o comprendere; non è di questo che voglio parlare. È bene ribadirlo: non discuto del suo suicidio.

Voglio però discutere della mia generazione.

Mi voglio soffermare su quelle tre parole, che poi costituiscono anche il titolo: la generazione derubata.

Io di anni ne ho dieci in più di Michele e di Angelo (Sommobuta): ormai ne ho quaranta.
E le prospettive erano pessime già dieci anni fa.
Adesso sono ugualmente pessime, solo che ho dieci anni in più sul groppone.
E, potenzialmente, meno entusiasmo e meno forza d’animo.
Io non mi ci sento, disperato, ma, come detto prima, è questione di sensibilità.

***

Non è cambiato molto, rispetto a dieci anni fa, nel desolante quadro sociale che c’era e che c’è oggi, eccetto forse che, in tutti questi anni, l’ipotesi sussurrata con timore s’è fatta certezza: il sistema di vita dei miei genitori è fallito.
Senza se e senza ma. È fallito.

È durato anche un bel po’, se vogliamo, circa cinquant’anni dall’immediato dopoguerra. Tenuto su con le stampelle dai compromessi di una classe politica ormai ridotta agli sgoccioli.
Parliamo di ultraottantenni, novantenni. Gli artefici di questo capolavoro che è il mondo in cui viviamo.
I Vecchi.

C’è un fatto, però. Io non mi sento derubato di niente.
Non mi è stato dato un contratto, quando sono nato. Io non l’ho firmato. Non mi sono stati garantiti agi e benessere. Per cui non mi sento derubato.
I miei genitori non hanno fatto altro, magari peccando di scarsa originalità, che introdurmi nel sistema.
Un sistema che è stato costruito quando loro erano bambini.
I miei genitori sono passati attraverso la Seconda Guerra Mondiale, da bambini.

***

Ecco, se io mi devo sentire derubato, immagino come possano essersi sentiti loro, all’epoca. A raccogliere le macerie e a ricominciare da zero. A vivere dei prodotti dell’orto, del brodo di qualche gallina ammazzata di tanto in tanto, per superare gli inverni.
Altro che derubati.
E i loro padri e nonni, in*ulati, per non dire altro, sotto le bombe o nei campi di sterminio.
Ma… dopo la guerra c’è sempre la rinascita. C’è il BOOM economico.
E su quel BOOM è stato costruito il sistema che, oggi, ci opprime.
Ma non voglio attribuire tutte le colpe agli Anziani di cui sopra.

Non è solo il fallimento economico, a caratterizzare la nostra attualità.
È un fallimento umano. Dell’umana sensibilità, della fratellanza, del bene comune.
E questo di sicuro non è germinato negli anni del dopoguerra, ma dopo, quando, all’apice del benessere, dimentichi, in quanto specie, degli orrori della Guerra, delle difficoltà, della sfiga, ci siamo trasformati in tanti piccoli e avidi individualisti.
Forse non ce ne siamo dimenticati, abbiamo solo guardato dall’altra parte. Che forse è peggio.

La società attuale, che condanna il fallimento personale senza aver prima concesso occasioni per riuscire è solo l’ultimo gradino. L’ultima aberrante trasformazione di quel sistema costruito tanti anni fa e “evolutosi” nel corso degli anni.

***

Io e papà (1977)

L’incertezza è una costante della mia vita.
Ormai ci ho fatto l’abitudine.
Mi sono arreso all’idea che la mia laurea non servisse a nulla già in corso d’opera. L’ho conseguita per non dare un dispiacere a papà, non perché fossi convinto che servisse.
Forse mi sono guardato attorno prima, ho capito che il mio destino, se incerto doveva essere, almeno avrebbe dovuto esserlo per mia scelta, non perché rigurgitato da un sistema saturo, prossimo al collasso.
Mi sono arreso all’idea di una vecchiaia senza alcuna garanzia.

Ma non mi sento derubato. Mi sento solo testimone della storia.
Di un dramma silenzioso che non scoppia con bombe sputate dalle pance dei bombardieri, ma che mi accompagna da quando sono nato: il lento logoramento del tessuto sociale. Una cambiamento epocale, che di solito si riesce a vedere anni e anni dopo, quando ormai ci si ritrova in un’altra fase ancora.

Non è nemmeno più il tempo del rancore, del sentirsi traditi. La colpa, quando è imputabile a una società intera, cieca e superba, cessa quasi di essere tale. È sistemica.
Con chi ce la si può prendere, quando intere generazioni non hanno saputo prevedere questa apocalisse silenziosa in cui ci troviamo?
Si può solo vivere, continuare a esistere e trovare un nuovo equilibrio, nuovi valori, e nuovi lavori.
Rifiutare la forma mentis che ci ha portato fino a qui, a fin di bene, e produrre un cambiamento. E sì, magari sentirs anche felici per i piccoli traguardi raggiunti.

Nessuno ha detto che sia facile.
Ma qui non è più questione di scelta, o di avvertimenti.
Ci siamo dentro, a questa situazione, da almeno vent’anni.
È questione di prendere coscienza che le cose non sono più come ce le hanno spiegate, è questione di accettare che il mondo non ci ha mai dovuto niente, perché non siamo speciali, migliori, o raccomandati.
Siamo solo uomini.
Né dei, né giganti.
Né privilegiati.
Solo uomini.

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  • […] ora, io ho letto il post di Angelo Sommobuta a riguardo, e anche quello di Hell Greco. Non concordo con loro su un paio di punti. Io non credo sia una generazione ad essere stata […]