L'Attico

Ciò che conosci

Ieri sera parlavo con la mia beta-reader, a proposito del mio nuovo ebook.
È un horror. E non so ancora se sarà una novelette, o un romanzo vero e proprio.
Robe da raccontare ce ne sono, più delle altre volte.
Perché, per la prima volta, ho deciso di scrivere della mia città, dei posti dove sono cresciuto.
Secondo quel vecchio adagio di scrivere ciò che si conosce.
Forse era arrivato il momento.
Mai creduto, intanto, al valore assoluto di questa summa, ma di sicuro, scegliere di ambientare una storia a Taranto pone tutto sotto una luce altra.
Sono uno di quei tarantini anomali.

Non immotivatamente fiero della mia città. Non per le puttanate che altri locali non mancheranno di decantare. La birra, le polpette, le cozze… bla bla bla.
Sì, sono buone, ma non sono la città. Se una città si riduce a birra polpette e cozze, capite da soli che abbiamo un problema.
Taranto mi ha fatto sempre un po’ paura.
La mia beta-reader mi ha posto la domanda: “La ami almeno un po’, la tua città?”.
Mi ci sono arrovellato da ieri, su questa domanda.
Non sono andato via da Taranto per necessità, ma perché era arrivato il momento. E ciò nonostante, non si è trattato di esigenza sine qua non. Avrei potuto restarci, e restarci bene, ma ho deciso di andare via.

Taranto, lo sapete, è una città bellissima, con profonde ferite. E non parliamo dei bombardamenti degli inglesi durante la Seconda Guerra Mondiale, non parliamo di cicatrici, parliamo di ferite aperte, che l’hanno depauperata e quasi distrutta.
E le ferite non abbelliscono, questa è una menzogna che raccontano i romanzieri. Le ferite sono merda, pura e semplice.
Capitano, è vero, ma uno non se le va mai a cercare. Quindi le ferite non sono questo valore aggiunto.

Eccetto che nella narrativa. Lì sono un valore aggiunto.

È sempre quella, la storia: la buona narrativa ama le disgrazie, non la felicità.
Taranto parte già come lo Sprawl, vive della maledizione che tanti, troppi colpevoli che ci hanno preceduto hanno contribuito a lanciare.
Il fronte d’inquinamento sotto cui soggiace, e che ha contribuito a livellare verso l’alto l’incidenza dei tumori nel tessuto urbano, è solo una delle sfaccettature di questa maledizione estremamente complessa.

Quindi ne ho paura. Ho paura di un luogo che, in nome del profitto, qualche decade fa ha scommesso contro il futuro delle generazioni successive.
Quei capannoni abbandonati, coperti di polvere di ferro che ossida e diventa ruggine, la quale dona alla periferia un colore rosato pallido è parte dello scenario. La polvere che ricopre i balconi, in pieno centro, quando cambia il vento, è un’altra piccola parte.
Da bambino, strofinavo le dita sulle foglie per scoprire il verde (dato che erano grigie), le ritraevo e le mettevo a favore di luce, per guardarle meglio: luccicavano, come fosse brllantina.
Brillantina di ferro.

Forse l’atto d’amore è proprio in questi ricordi, che sembrano propri di una distopia del dopobomba. Un bambino che si sporca le mani di polvere di ferro toccando le piante del suo balcone.
Se scelgo di narrarli è perché è in atto un sentimento profondo e malinconico, che mi lega a quei luoghi.

Io non ci abito più, ma non me ne sono mai andato. Conosco a memoria gli anfratti, gli angoli ancora incontaminati, la lentezza degli uffici pubblici, la bontà di certi cibi e la disperazione di certe persone, che non hanno scampo, ma solo speranze.
Se chiudo gli occhi e inizio a muovermi, posso fare un tour virtuale, talmente la conosco a memoria. Ogni scritta sui muri, ogni buca, ogni scorcio.
Difficile spiegare. Qui dove sono adesso, tra i monti, non mi sento estraneo, ma sono e sarò sempre fuori posto, perché io sarò sempre quel bambino che toccava le foglie e si sporcava le mani. Su un balcone di Taranto.

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